Non è che a Gela non ci fossero malandrini e coppole storte: negli anni cinquanta Gela era l’enclave del nisseno più rissoso.
Ma fatti di sangue nemmeno l’ombra: un delitto l’anno, più o meno. Per il cronista locale, ed io lo ero con i calzoni corti, il delitto era un evento straordinario, valeva quanto lo sbarco degli americani sulla costa. Quando mi capitò di doverne raccontare uno al Giornale di Sicilia, segnalai alla redazione la notizia con il cuore in tumulto. Sognavo la prima pagina, finalmente sarebbe arrivata, il salto di qualità in carriera. La notizia fu accolta con il tono compassato del redattore e l’aria annoiata del dimafonista, il dattilografo cui la dettai.
La mia eccitazione da novizio fu oggetto di scherno. E’ così che stavano le cose nella Gela rurale alla vigilia della scoperta dei giacimenti petroliferi sulla terra e nel mare e, soprattutto, della “invasione” industriale.
Gli inviati speciali al traino del petrolio di Enrico Mattei si occupavano del semaforo di Piazza Umberto povero di autovetture e della statua di Cerere nuda che fronteggiava la Chiesa Madre e il suo portone grande, opportunamente sprangato per evitare che la stata ignuda sabotasse le prediche del parroco.
C’era la prolificità dei gelesi a fare notizia, grazie al suo record europeo. Addebitato, anche questo, dalla miracolosa Cerere perennemente in compagnia di centinaia di uomini adoranti nelle serate tiepide di primavera e d’estate.
La petrolchimica avrebbe cambiato redditi, costumi, bisogni e pensieri dei gelesi. E cancellato semafori senza auto e nudità marmoree. A Gela si sperimentava il nuovo meridionalismo e gli scampoli della programmazione economica. E Enrico Mattei sfidava le Sette Sorelle del petrolio grazie ai pozzi petroliferi. Bastava chiudere gli occhi e l’Agip, parcheggiata nel piccolo porto, regalava la fotografia del Texas trasferito in Sicilia. Un miracolo.
Le famiglie rissose ed i malandrini assistettero anche loro, dapprima con cautela, alla calata dei boss non provenienti dal palermitano e del Vallone nisseno, poi decisero che avrebbero potuto starsene con le mani in mano, mentre i mammasantissima forestieri rubavano appalti e si arricchivano. Nacque la stidda, la mafia locale.
Un esercito di picciotti di maniere spicce e lesti con la pistola. Il petrolchimico divenne presto un gigante (dai piedi d’argille, si disse), e la stidda si guadagnò il suo spazio. Una mattanza, un morto di mafia al giorno, stragi e azioni di commando degne di film western. I ragazzini sparavano, chi sgarrava era un morto che cammina. Trai i capi si fece un nome, una ragazzina di sedici-diciassette anni, guida del branco di pistoleri con il piglio di un boss attempato e l’istinto predatorio.
La stidda si fece strada, ammazzando e lasciando sul campo i suoi picciotti. Le cronache promossero la città rurale povera e silente nella capitale di Cosa nostra, organizzazione che non mise mai radici a Gela. La città cambiò nome, divenne Mafiaville, chi aveva natali a Gela era guardato con sospetto.
Le famiglie della stidda in cinquanta anni, forse di più, sono rimaste le stesse. Una longevità eccezionale, nonostante negli anni si fossero trasferite nel Nord. Poco a poco, senza dare all’occhio – i Rinzivillo, Iaglietti, Di Giacomo – emigrarono, armi e bagagli. Gli stiddari poterono operare senza nemici: Cosa Nostra, “ndrangheta, Stato. Sospettare una penetrazione mafiosa nell’hinterland bresciano o lombardo era giudicata una calunnia. La mafia avrebbe potuto essere solo siciliana. I leghisti difesero con tenacia il buon nome della Padania.
La prima e la seconda generazione di stiddari trasferiti nel Nord si dedicò con diligenza alla imprenditoria, al racket, alla droga e alla prostituzione, i settori tradizionali, mantenendo il cordone ombelicale con la città d’origine. Ma con l’andare del tempo, le famiglie affinarono la loro attività, le nuove generazioni entrarono nei gangli vitali della pubblica amministrazione e, soprattutto, apprestarono nuovi servizi al Nord.
Escogitarono procedure ingegnose per permettere agli imprenditori locali di evadere il fisco e riciclare il denaro, investendo in attività legali, di far sparire aziende decotte senza pagare i debiti contratti, creare relazioni con la ricca borghesia locale, la politica e i businessmen avidi o bisognosi di sostegno. Insomma la stidda di Gela non sconfinò solo ad est, nel ragusano, ma si insediò al di là dello Stretto, evitando conflitti con le mafie emergenti, come la ‘ndrangheta.
Alcuni giorni fa magistratura e forze dell’ordine hanno messo dentro un affollato gruppo di “steddari” e portato in superficie le sofisticate attività dei colletti bianchi legati alla stidda, nonché i prodigiosi progressi compiuti dagli ex “scassapagghiari” scappati decine di anni or sono.
Com’è stato possibile che i picciotti gelesi e le famiglie stiddare, conosciute e monitorate per decenni, facessero affari d’oro,quasi indisturbati per tanto tempo, riuscendo a insidiarsi a nei settori vitali dell’economia del territorio, prima a Gela e poi nel Nord?
A Mafiaville sappiamo com’è andata: per decenni lo Stato è stato assente, ha ignorato il fenomeno del crimine organizzato: un commissariato di Pubblica sicurezza con quattro gatti ed una pretura con giudici onorari, tanto per fare qualche esempio.
Nel Nord l’evoluzione è stata invece aiutata da una incredibile sottovalutazione del fenomeno mafioso, una cultura demenziale, che addebitava ai “terroni” più in generale, ai siciliani in particolare, una disposizione speciale al crimine, l’omertà, la delinquenza. Nella Padania queste cose non succedono, era il leitmotiv.
Il blitz dei giorni scorsi, tuttavia, non è una prova decisiva per determinare il cambio di passo (attività finanziaria, nazionale ed internazionale).
Il negazionismo è stato sostituito da una formidabile campagna mediatica di distrazione di massa, che permette, ancora una volta, di sottovalutare il fenomeno, e di regalare dividenti nell’urna elettorale. I presidi di sicurezza e le paure leghiste sono rivolte agli stranieri, soprattutto quelli di pelle scura.
E’ da loro che verrebbero i pericoli per il nostro Paese. I boss sono un problema dei poliziotti e delle toghe, i morti sul lavoro e nelle strade sono effetti collaterali del progresso… Sono le facce scure a mettere a repentaglio la nostra tranquillità.
Siamo diventati tutti scemi o che cosa?