SIN è l’acronimo scelto dal ministero dell’Ambiente per Siti di Interesse Nazionale da riqualificare attraverso le bonifiche.
SIN, curiosamente, nella lingua più parlata al mondo, l’inglese, significa “peccato, colpa”: mai un acronimo descrisse meglio la sua “ragione sociale”. In Italia i luoghi devastati dall’inquinamento provocato dalle industrie sono 41, sei quelli che hanno per legge una corsia preferenziale. Dovrebbero cioè essere bonificati prima che gli altri. Fra i sei siti ci sono Gela, Livorno e Taranto.
Secondo una recente indagine, denominata “Sentieri” e coordinata dall’Istituto Superiore della Sanità, nei SIN si finisce all’altro mondo più velocemente che altrove. Il numero di malattie letali, causate dai guasti ambientali, sono il nove per cento in più.
Se vi pare poco, vi sbagliate di grosso: il nove per cento è una percentuale molto alta, trattandosi dell’incremento dell’incidenza oncologica fra i cittadini da 0 a 24 anni: documenta la morte di migliaia di uomini, donne e bambini in un’area, calcolata dal ministero dell’Ambiente in 130 mila ettari, cinque milioni di cittadini e 319 comuni.
Gela gode in Sicilia di compagni al duolo: Augusta, Melilli e Priolo, dove da 70 anni si regsitrano casi di mortalità precoce, bambini malformati e malattie di varia natura legate all’inquinamento marino, atmosferico e delle falde acquifere. La terra, il mare, l’acqua e l’aria infatti sono state contaminate.
Una legge prescrive che si debba intervenire con estrema urgenza, decine di inchieste giudiziarie e indagini scientifiche segnalano responsabilità e colpe. Eppure non succede niente, o quasi. Il ministero dell’Ambiente, che è parte in causa, avverte che le bonifiche non sono partite, o sono in fase embrionale.
Il 14 settembre scorso i cittadini che abitano nei siti inquinati hanno manifestato e protestato, ma non se n’è accorto nessuno. Nemmeno a Gela, che avrebbe dovuto essere alla testa della protesta.
Il governo appena deceduto, quello giallo verde, ha dovuto cedere al ricatto dei “padroni” accettando di prolungare l’immunità penale di coloro che inquinano. Gli oligarchi indiani che hanno rilevato Taranto, altrimenti se ne sarebbero andati, lasciando senza lavoro circa 20 mila dipendenti. Una jattura peggiore degli effetti letali dell’industria?
Nessuno lo ammette, ma è proprio così che la pensano in tanti. Donne sterili, malformazioni, tumori sarebbero un rischio da correre, perché la bonifica delle aree industriali costa l’ira di Dio e i posti di lavoro vanno protetti.
E Gela? Ciminiere spente, ma non festeggia nessuno. Immaginate un po’. Dovrebbero fare rinascere il boschetto di Bulala, per esempio, ridare vita al lago del Biviere e al fiume Gela. Rimettere a posto quel tratto di costa antistante il petrolchimico.
E’ una legge di buonsenso quella vigente, ricalca fedelmente un’antica consuetudine di civiltà: chi provoca danni ha il dovere di riparare. Perfino nel Medio Evo, gli eserciti ospitati nelle città alleate, avevano l’obbligo di pagare i danni.
La fabbrica, icona del progresso, ha stravolto consuetudini antiche e travolto leggi moderne. Ha modificato volontà e pensieri, costumi e cultura: Gela è stata, ed è ancora, la cavia di un esperimento ancora non concluso: esperimenta il meridionalismo rimosso da un secolo di dibattiti e studi, la programmazione sdoganata dai maitre a pènser bocconiani e promossa dall’avventuroso compromesso fra statalismo dirigista e solidarismo cattolico.
Chi giurava che investendo denari e creando posti di lavoro – rebus sic stantibus – la cattedrale nel deserto, realizzata all’alba degli anni Sessanta, sarebbe diventata un’oasi felice, immune dai mali di una Sicilia ancora in mano ai mammasantissima, ha fatto male i conti. La fabbrica ha lasciato sul campo morti di veleni e di pistole.