Le ciminiere che mandano i fumi nel cielo erano amate come i palloni multicolore che mandano gli uomini a toccare con mano le nuvole.
Erano il simbolo della ricchezza e del tempo nuovo, iniezioni di ottimismo e di futuro, insieme alle trivelle che portavano in superficie l’oro nero.
L’aria putrida e tradimentosa era aspirata come una sana boccata d’ossigeno.
E quegli alberi che sul rettilineo per Vittoria recitavano la parte delle Cassandre e costruivano un’impossibile linea Maginot ai veleni della fabbrica, erano sepolcri imbiancati da rispettare.
Da qualche anno le ciminiere del petrolchimico sono mestamente spente e i gelesi piangono miseria. Le “isole” della fabbrica, una dopo l’altra, hanno concluso la loro missione. Sono state gettate via le chiavi del benessere?
Forse le cose non stanno esattamente così. Forse Gela, che è una categoria dello spirito e non un luogo qualsiasi del pianeta terra – simbolo dell’industria che tradisce lo sviluppo – sta subendo una controversa crisi di autostima, si è contratta, compiendo a ritroso gli anni della rivoluzione industriale.
Se si dovesse tracciare l’autobiografia della città, quella degli ultimi sessanta anni, qualche dotto storico della società daterebbe la sua nascita con l’arrivo del petrolio, voltando le spalle al mare, alla sabbia “color della paglia” delle sue incantevoli spiagge, all’antica civiltà greca, alla piana immensa di cotone e grano.
Gela è nata grazie alle sue ciminiere fumanti? Né i cartaginesi né gli alleati, conquistando Gela, l’hanno cambiata come le ciminiere fumanti. La città ha preso giocoforza ad espandersi: vertiginosamente, confusamente, senza aver piena coscienza di ciò che stava accadendo. Il posto di lavoro, quello sì, che s’era capito cosa fosse. Ma tutto il resto? A Milano e Roma si decideva di servizi per l’industria, non dei bisogni della città.
I bisogni della comunità locale sono rimasti ai margini: la sicurezza, le scuole, le strade, le condotte idriche e fognarie, i telefoni, i servizi sanitari, perfino l’energia elettrica, l’acqua, i trasporti. Accanto ad una industria in continua espansione, la città è cresciuta in modo disordinato e povero con migliaia di tuguri abusivi.
Chi dovremmo portare sul banco degli imputati? Il popolo dei senza niente alla ricerca del posto di lavoro? I dirigenti politici e sindacali, costretti a confrontarsi da apprendisti stregoni con la rivoluzione industriale e le mafie onnivore arrivate da ovunque, con delinquenti comuni e organizzati senza scrupoli?
C’è chi ha stretto patti con le ciminiere fumanti e il denaro facile, chi ha lasciato fare, e chi ha tratto vantaggi cospicui semplicemente dall’assenza di regole, legge, vigilanza, etica. Sarebbe perciò facile aprire il fascicolo di un processo contro ignoti e pescare dal mucchio i più truci, ma resterebbero in platea, a guardarsi lo spettacolo, seduti comodamente in poltrona, quei professionisti furbi e di mente raffinata che nella zona grigia hanno realizzato i loro bottini.
Piuttosto che un processo etico e storico, o di credere nei miracoli o nel deus ex machina, c’è bisogno di pulizia e di autostima, oggi a Gela. Per chi guarda la città dopo una lunga assenza, come me, le ciminiere spente regalano aspettative, spiegano una inconsueta vitalità. La loro sorte infausta ha fatto nascere la città dei commerci, vivace, tumultuosa, disordinata ma in crescita.
Non basta, tuttavia. Le ciminiere spente pretendono che ci si rimbocchi le maniche, che ci sia una guida competente ed attenta della città; pretendono rispetto della legge. La missione dell’industria di Stato nel profondo Sud non è affatto compiuta. Gela, ricordiamocelo, fu il primo tentativo, il primo esperimento concreto di una politica meridionalista fino ad allora rimasta sui libri, le relazioni e gli articoli dei giornali.
C’è l’obbligo di ripristinare i luoghi devastati dalla fabbrica abbandonata, di rimettere a sesto l’ambiente, facendo della città la capitale italiana dell’energia pulita. Fucili puntati “su chi deve fare che cosa”, dunque. Lo Stato processi se stesso, se necessario, senza falsi pudori.
Non assolvo il passato, intendiamoci, ma ho gli occhi lucidi per un presente così inebriante. E provo a formulare un’audace metafora, un film di Federico Fellini. Il più noto, discusso, emblematico, La dolce vita: fu proiettato nelle sale cinematografiche nel 1960, quando a Gela nasceva la grande industria.
Fellini racconta una Roma sregolata, che vive il boom economico con il suo mondo dorato e senza domani, dove i miracoli ed i suicidi segnano il cielo di tenebra. Fellini ci toglie il respiro, ma sul punto di soffocare ci regala l’immagine di una fanciulla dal viso semplice e dal sorriso gentile che corre sul bagnasciuga di un mare placido.
E’ questo ciack che segna il mio recente soggiorno a Gela, grazie al viso fresco e gioioso di una donna dai tratti gentili, colma di spirito e di futuro, incontrata per caso, che meglio di ogni profezia o simbolo, apre il cuore alla speranza