L’8 marzo non è la “festa della donna”, ma la “Giornata internazionale della Donna, questo il suo vero nome.
Nata in ambito socialista, dedicata, in origine, alle battaglie di cui le donne furono protagoniste all’inizio del Novecento, aveva un potente significato sociale e politico di opposizione al potere.
Di “Giornata internazionale della donna” si iniziò a parlare al congresso socialista del 1907, a cui parteciparono i più importanti marxisti dell’epoca, tra cui Lenin e Rosa Luxemburg. Parallelamente, nel 1909 nacque negli stati Uniti, per volontà del partito socialista americano, il “Woman’ s Day”, tuttavia fu la Russia a fare da propulsore alla celebrazione: l’8 marzo 1917 le donne di San Pietroburgo dichiararono sciopero e organizzarono una grande manifestazione per chiedere la fine della guerra e ottenere il ritorno dei loro uomini in patria. Quella giornata diede vita ad una serie di ulteriori manifestazioni e viene considerata l’inizio della Rivoluzione Russa di febbraio che portò alla caduta dello zar.
Inizialmente l’8 marzo russo diventò la “Giornata internazionale dell’operaia”, fino a trasformarsi, anche in seguito al pronunciamento dell’Onu del 1975, nella “Giornata Internazionale della donna”, occasione per ricordare tutti quei momenti in cui le donne avevano capito come organizzarsi per inserirsi nelle dinamiche politiche, modificandole ; eppure questa origine storica è stata occultata, nel corso del tempo, dalle versioni alternative che i media hanno diffuso, in particolare la più celebre è quella secondo la quale l’8 marzo sarebbe, di fatto, una commemorazione funebre di 123 donne, soprattutto immigrate italiane ed ebree, morte in un incendio avvenuto in una fabbrica di camicie di New York.
L’incendio è avvenuto davvero, ma non in quella data: la fabbrica “Triangle” andò in fiamme il 25 marzo 1911. Questo errore storico ha avuto molta fortuna, probabilmente perché negli anni della Guerra Fredda ha permesso all’Occidente di scollegare l’8 marzo dalle sue origini russe e comuniste e poi perché si accorda bene con un modo di vedere le donne più come vittime che come protagoniste.
In Italia i primi tentativi di introdurre un giorno dedicato alla donna risalgono al 1922, ma è solo dopo il 45 con la fine della guerra, che effettivamente la giornata è stata fissata sul calendario delle ricorrenze. A chiederne l’introduzione l’UDI (Unione Donne Italiane), formato da militanti del PCI, del PDI, del Partito d’Azione e della Sinistra Cristiana. La prima volta che viene celebrata in tutta Italia è l’8 Marzo del 1946.
Nel mondo la Giornata della donna si festeggia già da decenni: noi l’abbiamo importata in ritardo e ribattezzata “festa”, eppure anche da noi quella data all’inizio è stata un giorno di lotte e rivendicazioni. Era così negli anni 50 quando distribuire la mimosa era ritenuto un gesto che “turbava l’ordine pubblico” e i banchetti delle militanti venivano denunciati per “occupazione del suolo pubblico”. E’ stato così almeno fino al femminismo degli anni 70: l’8 marzo a Roma, in piazza “Campo dei fiori, si tenne una famosa manifestazione femminista.
Jane Fonda lesse un discorso di fronte alla polizia pronta ad intervenire: i cartelli delle manifestanti chiedevano la legalizzazione dell’aborto e la liberazione dell’omosessualità. Tali richieste erano ritenute intollerabili. Gli agenti caricarono e presero a manganellate le femministe, disperdendole e ferendone diverse. Quella giornata era ancora un evento dirompente, qualcosa che si metteva di traverso rispetto allo status quo. Poi cosa è successo?
L’8 marzo, nel 2018, si fanno gli auguri alle donne, si comprano regali, aziende e locali si mobilitano per organizzare serate a tema, compaiono menu speciali al ristorante. Per molte donne è un giorno diverso dagli altri, come a carnevale, in cui possono darsi alla pazza gioia, fare cose che fanno gli uomini e che loro normalmente non fanno, un po' come nell’addio al nubilato, è un giorno per scimmiottare gli uomini partecipando a serate con spogliarellisti, visto che si è legittimate ad uscire senza mariti, fidanzati, compagni.
Sempre nel 2018 il senatore Pillon, strumentalizzando la rabbia e la frustrazione di alcuni padri separati e divorziati presenta un decreto legge con il quale tenta di far tornare il diritto di famiglia italiano agli anni 50, sancendo la rivalsa del patriarcato sui diritti conquistati dalle donne a partire dagli anni 70, senza tenere conto né della tutela dei minori, considerati veri pacchi postali, né delle donne vittime di violenze familiari.
Pillon cerca, attraverso le modifiche di legge proposte, di dissuadere le coppie a divorziare, introducendo l’obbligo di una mediazione familiare a pagamento, nel momento in cui si avvia una richiesta di separazione (è bene ricordare che la mediazione familiare è vietata dalla Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia il 19 giugno 2013, in quanto la violenza domestica non è un conflitto tra i coniugi risolvibile con una mediazione, ma violenza di genere. Le donne vittime di violenza si troverebbero quindi costrette, paradossalmente, a mediare con il proprio carnefice).
Mentre Pillon con il suo disegno di legge cerca di imporre una visione reazionaria e fortemente maschilista del matrimonio, della genitorialità e dei rapporti tra uomini e donne il ministro della famiglia Lorenzo Fontana attacca la legge sull’aborto (altra conquista frutto di forti battaglie), afferma “di sperare un domani” di poter cancellare la legge 194 del 1978 e auspica che anche in Italia possa accadere quanto successo in Argentina, non esitando ad interpretare i dati sul calo delle nascite in modo strumentale, attraverso un’analisi del tutto personale e poco collegata alla situazione sociale reale.
Al di là di questo, tuttavia, le battaglie delle femministe hanno fatto sì che nel corso degli anni venissero approvate dal Parlamento italiano una serie di norme che sono state capaci di abbattere discriminazioni e disparità e realizzare pari opportunità tra maschi e femmine. Pari opportunità che, tuttavia, sono state recepite e realizzate solo a partire dalle nuove generazioni, cioè dalle ragazze di oggi.
Liberate da decenni di lotte, emancipate e capaci di seguire la propria indipendenza, mai come oggi, le ragazze possono godere dei benefici delle pari opportunità, che finalmente sono diventate una realtà in gran parte dei Paesi occidentali. Le nuove generazioni non cercano classificazioni di genere e vivono al di là dei soliti stereotipi maschio-femmina, la sfida che li attende è quella di completare il lavoro iniziato dalle loro nonne, abbattendo ogni discriminazione e disparità.
Come afferma il famoso Psichiatra Paolo Crepet oggi non esistono più le donne e gli uomini, perché non c’è più una cultura femminile ed una maschile: si sta affermando una comunità “genderless”, dove l’appartenenza di genere rappresenta soltanto un vecchio steccato privo di senso. E’ un concetto rivoluzionario, che le giovani donne di oggi vivono e rappresentano appieno. Oggi le ragazze hanno le stesse opportunità dei ragazzi: viaggiano, scelgono i propri partner, amano liberamente. “C’è più disparità tra una donna di vent’anni ed una di sessanta, che tra un maschio e una femmina” – afferma Crepet –.
Non esistono più i giovani playboy da una parte e ragazze leggere dall’altra, come era fino a molti anni fa. Oggi sono tutti uguali.
Dopo anni di lotte, i diritti delle donne hanno conquistato, in modo graduale, un consenso diffuso, ma è solo a partire dalle ragazze di oggi che possiamo affermare che un risultato autentico sia stato ottenuto.
In Italia grazie alle battaglie iniziate dalle femministe degli anni 50, dal dopoguerra in poi un lento cammino perseguito con enorme coraggio ha fatto sì che le donne ottenessero tanti diritti: l’aborto, il divorzio, oggi il divorzio breve ed una serie di norme legislative che hanno consentito che dall’ideologia si passasse ai fatti ed alla pratica. Ciò permette alle ragazze di oggi di vivere come nessuna di quelle straordinarie donne, che hanno iniziato la battaglia dell’emancipazione femminile, avrebbe potuto auspicarsi.
Oggi ragazzi e ragazze partono insieme, vanno alla ricerca di un lavoro allo stesso modo e se hanno le stesse opportunità, si hanno maggiori probabilità che al comando ci siano le persone migliori, quelle più abili e preparate.
Questo è un buon punto di arrivo, ma di cose ce ne sono ancora da fare: fino a quando ci sarà una sola donna che ha paura ad uscire da sola non si può dire che si sia raggiunta la parità al 100 per cento, ma non solo questo.
Nel nostro Paese le disparità economiche ed occupazionali tra uomini e donne sono ancora molto elevate, la disoccupazione femminile è talmente alta da collocare l’Italia al penultimo posto in Europa, peggio di noi c’è solo la Grecia. Il costo sempre più elevato e non deducibile degli asili nido pesa notevolmente sui bilanci domestici, oltre al fatto che la cura della casa, dei figli e dei parenti anziani ricade quasi completamente sulle spalle delle donne e, quelle che lavorano, faticano sempre più a conciliare i tempi di lavoro con gli impegni familiari.
I riflessi storici che hanno visto la donna, nel corso della storia, per secoli e secoli, in una condizione di subalternità e di inferiorità rispetto all’uomo sono più che vivi, anche nel mondo occidentale, come ci dicono i dati sugli abusi psicologici, stalking, hate speech sui social, fino alla brutalità fisica ed al femminicidio. I dati Istat dimostrano che sono 7 milioni le donne italiane che nel corso della loro vita hanno subito una qualche forma di maltrattamento, mentre i tweet di odio contro di loro sono passati nell’ultimo anno da 284.634 a 326.040.
Sono tante e disparate le forme di violenza che le donne subiscono ancora oggi. In molte parti del mondo, sono considerate carne da macello. Ci sono dodici Paesi (India, Pakistan, Iran Afganistan, Ciad, Sudan, Congo, Nepal, Mali, Somalia, Yemen, Arabia Saudita, Guatemala) dove a causa di culture ataviche, religioni obsolete, superstizioni le donne hanno meno diritti degli animali e vengono mutilate, brutalizzate, disprezzate, maltrattate, uccise, senza essere protette dalle leggi, e questo è veramente inaccettabile.
Anche nei paesi del mondo evoluto la violenza sulle donne, che spesso arriva al femminicidio, è purtroppo un fenomeno in crescita. Ciò accade perché essenzialmente molti uomini hanno ancora difficoltà ad accettare la lunga coda della liberazione della donna, nonostante siano passati più di quarant’anni dalle tante conquiste come il divorzio. Non l’accettano perché c’è una parte della cultura maschile che non si è adeguata a una parte della cultura femminile.
Se andiamo a vedere i dati del femminicidio per provenienza culturale, si può vedere (non in assoluto, perché ci sono sempre le eccezioni) che questa violenza è più frequente negli strati della popolazione con medio bassa cultura. Gli uomini che si macchiano di femminicidio sono quelli che non hanno elaborato quanto è avvenuto in questi anni e sono rimasti legati a un concetto di famiglia arcaica, che vede la donna ancora come sottomessa e l’uomo con un ruolo dominante.
E’ bene sottolineare che una parte di responsabilità è anche da attribuire ad una certa cultura che educa le donne a pensare che l’amore passionale debba prevedere anche il possesso, per cui ci si presta a diventare oggetto di gelosie, manipolazioni, ossessioni, o addirittura che l’amore passionale debba prevedere anche qualche lecita violenza.
Bisogna ribadire alle ragazze che la gelosia non è una forma d’amore, ma solo di possesso, perché l’amore è innanzitutto rispetto: “ti amo, quindi ti rispetto”. Il maschilismo ha prodotto in molte donne una cultura complementare, che le ha portate ad accettarlo e quindi a rafforzarlo, attuando determinati comportamenti come prestarsi ai giochi di seduzione in contesti in cui bisognerebbe interagire contando sulla propria preparazione e sulle proprie competenze. E’ necessario far comprendere alle donne che un uomo violento resta tale e non cambierà mai.
Al fine di prevenire gli atti di violenza ed il femminicidio è necessario incrementare le risorse economiche per sostenere le donne vittime di violenza presso apposite case-rifugio, aumentare le misure di restrizione nei confronti dell’uomo violento già nelle fasi di denuncia e costringerlo a sottoporsi a trattamenti psico-terapeutici, al fine di aiutarlo a controllare gli impulsi e a ragionare in modo adeguato ai tempi.
Non è superfluo ricordare che è attivo il numero verde di pubblica utilità della rete nazionale antiviolenza 1522, e che oltre alla “Giornata internazionale delle donne” esiste la “Giornata internazionale per l‘eliminazione della violenza contro le donne” che cade il 25 novembre. In questo stesso giorno del 1960, furono uccise le tre sorelle Mirabel, attiviste politiche della Repubblica Domenicana. E’ una data importante, per ricordare a tutti che il rispetto è alla base di ogni rapporto e che non possiamo continuare a veder crescere il numero delle donne che subiscono violenza.
Oggi 8 marzo 2019 essere donna ancora una volta, significa essere coraggiose, per potere affrontare continuamente una sfida verso un conservatorismo che tende al mantenimento dello status quo maschile, per cui bisogna avere il coraggio di denunciare, di dire no, partendo non da una posizione vittimistica ma da quella del rispetto per se stessa, che consente di battersi per la propria dignità. Per fare ciò è fondamentale rafforzare l’autostima attraverso la convinzione di riuscire a farcela, di essere più forte degli ostacoli da superare