Il direttore Rocco Cerro mi ha chiesto di scrivere qualcosa su come immagino questa città tra cinque o dieci anni.
Per farlo inizio dal titolo, con una precisa scelta di campo, Gela per me è una città aperta. Lo è già, da sempre, ma l'ha dimenticato. Non sto dunque cercando di evocare nella mente di chi legge un'immagine soave da contrapporre alla realtà di una città chiusa, circondata da mura. Gela è sempre stata aperta a tutto, pure alle invasioni. E chiunque voleva invadere la Sicilia, ha sempre pensato che questo era il luogo perfetto per lo scontro. Un demografo una volta mi disse che in Italia nessuno più di un gelese ha sangue berbero nelle sue vene.
Quando mi chiedono dove sono nato, a volte mi piace rispondere con queste parole: sono nato in fondo a un rettilineo nella città in cui finisce l'Europa e ancora non si sa cosa può iniziare. Si perché nei momenti positivi penso alla mia città natale come un luogo vivo in cui può sempre succedere qualcosa di nuovo, di inatteso, qualcosa che segni l'inizio di una specie di palingenesi. Mentre nei momenti di sconforto ripenso a Gela come l'assolata e immutevole fortezza Bastiani del deserto dei tartari. Come uno dei più remoti e polverosi avamposti di quella che un tempo era stata un'antica civiltà.
In effetti Gela, anche geograficamente, la puoi osservare da due prospettive diametralmente opposte e radicalmente diverse. Vista da nord, dalla sua piana "messicana", è quella che è, vasta, abusiva, con un enorme agglomerato edile di cubature di tufo. C'è chi visitandola da nord me l'ha descritta come i "pueblo jovenes" peruviani lungo la carrettera panamericana: un insediamento umano, molto precario, sorto di botto alla fine di lunghi rettilinei deserti, percorsi da cani randagi che si rifugiano nei bunker della seconda guerra mondiale.
Da sud, la visuale che ci piace di più è quella dei marinai, dalla prua di una barca. Dal mare scopri un'altra Gela, con il suo fronte marittimo, compatto e mediterraneo, delimitato a est dall'industria e dal suo porto, e ad ovest dall'ordinato quartiere dell'Eni e dal parco archeologico con i bei lidi sulla linea di costa. Guardandola dal mare vorrei appunto soffermarmi su quello che in questo luogo può iniziare, e non su quello che può finire o e già finito. Dal mare potrebbe essere più facile capire ciò che per tutti noi ha un valore potenziale da cui ripartire. Se ritorno sull'idea della città aperta, penso che Gela e la sua comunità per ritrovare un ruolo dovrebbero ritornare ad essere utili agli altri come lo furono in passato. Una città aperta in cui tutti potevano abitare per trovare opportunità e lavoro.
L'espressione città aperta, trae origine dal diritto internazionale e si riferisce a una città in cui vige un "cessate il fuoco", per accordo tra le parti belligeranti, senza la necessità di combattimenti, con lo scopo di evitarne la distruzione. Mi piace immaginare che a Gela le parti politiche "belligeranti", tra le mura democratiche del suo palazzo municipale, un giorno, spero vicino, possano concordare il cessate il fuoco per dichiarare Gela, città aperta. Aperta innanzitutto all'innovazione, alla cultura, alla creatività, alla sana e intelligente convivialità.
Aperta e fortemente integrata territorialmente con tutto ciò che la circonda. Per finire chiudo con una domanda che può sembrare strana: A che serve Gela? E ovviamente la prima risposta è che Gela serve ai gelesi per viverci. Ma ciò che sta accadendo è che a molti giovani, spesso i più capaci e formati, la città di Gela non serve più neanche per sopravviverci. Motivo per cui partono e vanno via. I giovani vanno via per cercare opportunità, per crescere, per essere migliori, e soprattutto per avere la possibilità di operare in ambienti lavorativi e in progetti aperti, creativi, accessibili e inclusivi. E tutto ciò anche a Gela sarebbe possibile.
Qualche idea. Una comunità di cittadini, giovani e non, seri, formati e competenti potrebbe subito operare per affermare una Gela più aperta, sana, coesa e solidale. Un lavoro cognitivo complesso che grazie alle ingenti risorse pubbliche per la riconversione industriale e per l'agenda urbana, potrebbe consentire di creare e avviare ad esempio un Piano territoriale per l'innovazione nella gestione dei rifiuti, dei trasporti, della mobilità privata e dei servizi pubblici locali, lungo l'asse di sviluppo strategico che lega Gela da una parte alla città di Vittoria e all'aeroporto di Comiso, e dall'altra al porto di Licata. Un progetto decisivo per il superamento radicale dell'insostenibile e inefficace sistema dei trasporti locali. Per rafforzare l'integrazione progressiva dei tre principali centri della costa (Gela, Vittoria e Licata).
Un piano che potrebbe portare anche alla realizzazione della prima "Green Station" siciliana, dotata di spazi di ricarica, e-bike, sharing station, terminal e-bus, per sperimentare modelli di sharing mobility con i comuni limitrofi. La "Green Station" potrebbe essere il punto nodale della mobilità privata e collettiva della Sicilia Centro-meridionale, lungo corridoi protetti con tempi affidabili e aggiornamenti su smartphone; La liberazione progressiva di strade e piazze della città dalle auto le renderebbe certamente più vivibili e sicure.
Una grande innovazione sarebbe quella di riportare la campagna in città con percorsi verdi trasversali da Gela a Mazzarino, passando da Sophiana e sino a Piazza, alla Villa romana del Casale e Morgantina, per creare luoghi e percorsi congeniali per una diversa vivibilità e fruizione del territorio. Insomma con una visione meno asfittica, di medio periodo, si potrebbe riposizionare Gela al centro di una "grande area green" per legare la città con le infrastrutture aeroportuali e portuali, lungo le principali direttrici di sviluppo. Il ruolo degli enti pubblici, del Comune innanzitutto, è proprio quello di attrarre su questi progetti e innovazioni gli investimenti non solo pubblici ma anche dei gruppi industriali della mobilità e dell'energia, per attivare tutte le possibili nuove economie con idee e progetti "future proof", a prova di futuro.