Sono trascorsi 30 anni da quel tragico 10 novembre del 1992 quando, intorno alle 20,30 due giovani killer della "stidda" (uno ancora minorenne) in sella a una "Vespa 50" spararono numerosi colpi di pistola contro il commerciante Gaetano Giordano(nella foto), di 55 anni, uccidendolo.
Alcuni proiettili colpirono a una gamba anche il figlio, Massimo, che rientrava a casa con il padre mentre parcheggiava la loro Fiat Panda di fronte alla propria abitazione, al n. 98 di via Verga.
La "Stidda" gelese aveva così eseguito la condanna a morte sentenziata con un cinico sorteggio fra i nomi di 5 esercenti coraggiosi che si erano ribellati al racket delle estorsioni firmando le loro denunce.
L'episodio sconvolse la città che si ribellò alla mafia scendendo in piazza, schierandosi con la famiglia Giordano e con le vittime delle estorsioni e, nel 2005, dando vita, su iniziativa di Tano Grasso e del Fai, all'associazione antiracket e antiusura intitolata proprio a Gaetano Giordano.
Esecutori e mandati di quel feroce delitto sono stati arrestati e condannati. Ma il ricordo e il dolore nelle menti, nei cuori dei familiari non si cancellano.
"Cerchiamo di rassegnarci sforzandoci di immaginare che la scomparsa di Gaetano sarebbe potuta avvenire anche per un infarto - ci confida la vedova, Franca Evangelista. "Ma poi, ad ogni commemorazione, ad ogni richiesta di intervista, ad ogni incontro con le autorità si rinnovano rabbia, amarezze e sofferenze".
Franca Evangelista Giordano, commerciante anche lei, non è andata via da Gela. Con coraggio e dignità ha scelto di rimanere qui e di continuare da presidente onoraria dell'associazione antiracket la battaglia per la legalità, la libertà e la giustizia intrapresa dal marito.
"Mi sento fortemente legata a questa città dove sono arrivata ragazzina - sottolinea la signora Giordano - e quando vedo che la trattano male me la piglio, mi arrabbio, perchè non è solo la città dei miei figli: è la mia città! Ci vivo ormai da 60 anni".
– Si è mai pentita di essere rimasta a Gela?
«No, mai! Ho detto a me stessa che sarei rimasta fino a quando me la sentivo. E oggi sono ancora qui».
– Le hanno ucciso il marito. Ai suoi figli hanno tolto il padre. Dopo 30 anni qual è il rammarico più grosso?
«Quel che più mi dispiace è che mio marito non abbia potuto vedere crescere i nostri figli, la loro affermazione nel lavoro, nella vita, i nipoti. Sono le cose che ti mancano quando si va via troppo presto. Tra l'altro si attendeva la laurea di Massimo, prevista per il marzo del '93. Tiziana si laureerà 2 anni dopo suo fratello».
– Si sente appagata dalla risposta dello Stato?
«Mi sento appagata perchè nel giro di 1 anno è stata fatta giustizia con l'arresto dei colpevoli e poi con la loro condanna».
– Ha mai pensato di perdonarli?
«Sì. Ma non mi riesce ancora. Quando ci penso si accende in me un conflitto di sentimenti. Non riesco ancora a perdonare. E allora cerco di escluderli dai miei pensieri. Li ho visti dopo l'arresto. Preferisco ignorare. C'era un minorenne tra i killer. Un ragazzino. Forse per lui è stato il "battesimo" del fuoco. Ora è stato scarcerato. Gli auguro un percorso di vita sereno».
– Per commemorare suo marito nel 30° anniversario della sua uccisione si pensava ci sarebbe stata una cerimonia più solenne. Invece la messa privata (seppure celebrata dal vescovo, Rosario Gisana e dal vicario foraneo, don Lino Di Dio) e una corona d'alloro per la prima volta sul luogo dell'agguato.
«A dire il vero io avrei voluto solo la messa. E' stato mio figlio Massimo a convincermi che andava ricordato con una celebrazione dei 30 anni seppure in maniera sobria: la messa di suffragio, la deposizione della corona d'alloro e dopo i familiari gli interventi delle autorità presenti: Il sindaco, il prefetto, Tano Grasso, ecc.».
– Suo marito viene ricordato anche a Bergamo.
«Sì. Il progetto di mio marito era di spostarci a Roma dai ragazzi. Ma era tutto in itinere e quando fu ucciso non poté essere seppellito nella capitale perchè non avevamo la residenza. Decidemmo allora di tumularne la salma a Villa D'Almè vicino Bergamo dove vivono i suoi fratelli. E lì mio marito è rimasto fino allo scorso anno, quando poi abbiamo deciso di riportarlo in Sicilia. Un presidio dell'associazione "Libera", di don Ciotti, è intitolato a Rita Atria e Gaetano Giordano che dal 2010 viene ricordato con delle manifestazioni. Quest'anno, oltre a una messa di suffragio è stato organizzato un incontro col giornalista Enzo Frigerio sul tema "A 30 anni dalle stragi: non servono parole leggere" e un collegamento telefonico con Franca Evangelista».
– L'associazione antiracket che porta il nome di suo marito sembra spazzata dai venti dello scandalo (vedi articolo a fianco). Si rischia la chiusura, il fallimento. Che succede? Stiamo tornando indietro?
«No! Indietro non si torna! L'associazione è solo sospesa. Il vento prima o poi dovrà calmarsi anche perchè si tratta di vicende personali con tanto clamore per nulla. Ci auguriamo che presto tutto venga ripristinato».
– Ma intanto la città sembra di nuovo nelle mani della malavita che incendia, intimidisce, distrugge.
«Io non credo si possa tornare indietro dopo tante esperienze. Però ci vorrebbe più attenzione sul territorio. Leggo che da parte delle forze dell'ordine c'è tanto supporto. Certo, io non giro molto ma quando lo faccio non mi accorgo di una particolare presenza delle forze di vigilanza. E poi il solito atavico male: l'omertà. Il vedere e non denunciare. Non è una bella cosa».
– Forse c'è di nuovo paura. Quella stessa paura di 30 anni fa.
«Può darsi. Ma bisogna avere fiducia nello Stato e denunciare. Da noi, in famiglia, aleggiava una malcelata preoccupazione che Gaetano non avrebbe ammesso mai per non farci spaventare. A me fino alla fine non fece che dirmi di stare tranquilla e di non preoccuparmi. La sua esortazione categorica, col sorriso in bocca, era: fregatene (in dialetto siciliano). Fu l'ultima sua parola che mi disse».