Gela è una città complessa, troppo complessa. Di fronte ai peggiori mali, alle virtù del minimo comune multiplo, alle basi primordiali della chimica o alle fonti impure del pregiudizio più diffuso.
Una città che meriterebbe un risveglio tranquillo e senza scenari da fronte bellico, dove ogni occasione è buona per proclamare innovazione scontata che, alla fine, si rivela sempre improduttiva o comunque troppo generica. E in sostanza, tolte le false apparenze, vado a votare per la trentesima volta, con la vaga illusione di sentirmi pienamente cittadino. Non entro nel merito delle questioni politiche, anche se devo constatare quotidianamente i sistemi litigiosi di chi vuole a tutti costi ragione e magari non si cura del bene dei singoli individui.
Non desidero neanche affrontare la dinamica religiosa, certamente degna di rispetto ma essenzialmente votata alla disperazione di una classe operaia che, a mio modesto avviso, avrebbe potuto creare delle basi solide già un paio di anni addietro, quando i segni della crisi cominciavano ad infiltrarsi all’interno del tessuto economico e si riusciva a intravedere qualcosa nel piatto. Ovviamente, da buon cristiano peccatore e imperfetto, credo solo nell’amore misericordioso di Dio e non in un possibile investimento “divino” costellato da programmi senza fine o da “cestini” della solidarietà. Oggi come allora, oggi come adesso, lontano da diatribe e giochi di potere. Credo nella mia città, disposta a spendersi, a rivalutarsi, a rimarginare ferite. Credo anche in un possibile rilancio dell’azione commerciale, pronta a selezionare secondo i canoni tradizionali (curriculum e verifica dei requisiti) e a rivedere il concetto di manodopera, pronta a slegarsi dalle logiche dello sfruttamento o di una mancata assunzione legata all’orientamento sessuale (vietata, se non erro, per legge).
Chissà come piangeranno la 903 del ’77 e la 125 del ’91, riferimenti normativi nati con lo scopo di sostenere le differenze di genere e che, di fatto, sono rimasti chiusi nel cassetto per decenni. Questa è la nostra città, atipica dimostrazione di un agglomerato urbano privo di coordinate sociologiche e destinato a sonnecchiare nei pozzi neri della solitudine. Esagerato ? Forse, ma consentitemi, miei cari lettori, di avere un dubbio, legittimo e concreto. Può esserci sviluppo in un luogo intriso di pettegolezzi, cantilene, mezze parole e sguardi furtivi ? Può esserci comunicazione in un territorio che non conosce né emittenti, né riceventi ? Non lo sappiamo, ma i nodi rimangono e, prima o poi, qualcuno avrà l’incarico di scioglierli definitivamente e senza indugi.