Perché non sento il rimpianto della mia terra?
Perché non conosco la sofferenza che provoca il bisogno, inappagato, del ritorno, la tenera inguaribile nostalgia? Sono passati 40 anni dalla mia partenza, il giorno di Natale del 1978, su un autobus disabitato e la nuova vita, a Palermo, e i ricordi sono diventati una nebbia indistinta. Fino a far sparire le radici?
A furia di negarle, consapevolmente o meno, le radici sono spuntate. Solo che appaiono indecifrabili. Le ingarbugliate vicende della vita hanno reciso ricordi, un’amputazione che mi addolora.
Resta vivo il volto dei miei cari, dei miei amici di sempre, alcuni dei quali non ci sono più, dei banchi di scuola, dei miei maestri, del mare caldo e spumoso d’estate, delle interminabili passeggiate notturne. Ricordi che riscaldano il cuore, ma restano separati dalla città, non regalano nulla alla sua identità confusa e controversa.
Osservando un giardiniere che armato di forbice pota una pianta d’acacia, Eugenio Montale, in una sua poesia, s’intristisce. Quella forbice che recide le foglie e i rami dell’albero è la metafora del tempo. Montale teme che la memoria si svuoti, come quell’albero, fino a cancellare ogni ricordo, anche il più leggiadro. Spogliarsene, crede il poeta, sarebbe come tradire se stessi. Se la nebbia del tempo li cancella, spogliamo la nostra anima, ci trasformiamo in un guscio rinsecchito, esposto ai venti d’autunno che inevitabilmente lo spazzeranno via.
Ma la forbice del giardiniere ignora la sofferenza del poeta, non si ferma. I rami e le foglie, come i ricordi, saranno tagliati e l’acacia spogliata. E il poeta deve arrendersi. La perdita sarà irreparabile.
La metafora di Eugenio Montale m’interroga. Che cosa mi ha lasciato nel cuore, “freddo, di radice ferita” (Alda Merini), Gela? Che cosa mi è rimasto dentro, che non riesco più a trovare? Come potrò evitare che venga reciso l’ultimo ramo? Che cosa devo cercare, per far nascere la nostalgia del ritorno (nòstos), sentire la sofferenza (àlgos) della lontananza? Come porre rimedio alla povertà dei miei sentimenti, al disconoscimento delle mie radici?
Per trovare risposte socchiudo gli occhi e mi lascio guidare dai volubili umori. Rivedo le lampare che dipingono di stelle nelle notti d’estate il mare di Gela, cancellando ogni confine fra l’orizzonte ed il cielo. Rivedo gli alberi del fitto boschetto di Bulala che saranno recisi per far posto ai mostri di lamiera e cemento dell’industria. E la commozione che sale alla gola mentre assisto alla scena della folla oceanica del venerdì santo che in un silenzio spettrale partecipa al dolore inestinguibile della Madonna. Rivedo la città dei “forestieri”, Macchitella, che punisce con lo sguardo severo i tuguri nascenti aggrappati alla collina della città vecchia. I
baffi bonari di Vincenzo Interlici, custode delle possenti mura timoleontee, che racconta di avere sognato il teatro greco a Capo Soprano. E un piatto di maccheroni al pomodoro, con il garofano in cima, bandito all’asta nel giorno di San Giuseppe Lavoratore del 1° maggio a sant’Agostino. E il lido La Conchiglia vestito a festa nelle giornate d’agosto, trasformato in uno scheletro di cemento. Seguo con lo sguardo gli ex maestri di scuola, che, orgogliosi, indossano la tuta della fabbrica, passeggiando per il Corso Vittorio Emanuele. E la Villa comunale, povera, con il suo pomposo accesso, costretta a convivere con “u locu i Pasqualelleu”, ricco di canneti ed erbacce. E le inquietanti catacombe dei Padri Cappuccini, a ridosso della Villa, che sfidavano la paura della morte.
Poi, c’è la storia. L’antica civiltà greca, che ci gonfia di fierezza il petto (“immanisque Gela nominis flumine dicta”). E il tenue riverbero della civiltà federiciana fra i bastioni medievali della città.
C’è anche Salvatore Quasimodo che sfoglia i libri di testo sui banchi al Liceo Classico Eschilo, e giace sulla sabbia color paglia della spiaggia gelese. Ci sono le trivelle che estraggono cattivo petrolio nella piana, trasformata in una ricca prateria texana. C’è il porto isola, che irride alla città, geloso della sua appartenenza esclusiva all’industria.
E la stazione ferroviaria, elegante ed accogliente, senza treni. Il vecchio pontile sbarcatoio, chiuso perfino alle passeggiate da tempo immemorabile. E l’inospitale porto rifugio, incapace di accogliere i natanti, che volta le spalle alla marineria locale. Cattedrali nel deserto di idee e di volontà. E cimiteri di ferro e acciaio che restano a suggello di un insopportabile tradimento. Ecco cosa rimane negli occhi.
Gela procura fitte allo stomaco, non nostalgia. Alimenta rammarico, rabbia, tanta sofferenza da sentire repulsione, un insopprimibile voglia di starvi lontani. E’ una malattia dell’anima. Curabile, ma insidiosa. Come il virus che ci sta cambiando la vita. E il futuro. Bisogna fortemente volerlo.