Nel tessuto digitale della Gela del 2024, tra le ombre degli antichi eucalipti che si stagliano contro una skyline inframmezzata da antenne e cisterne d’acqua, si dipana la vicenda di Jacopo, professore di filosofia e appassionato di tecnologia, co-protagonista del romanzo di fantascienza Abu-Lia del gelese Michele Cupertino, classe 2001.
Il suo dialogo con l'intelligenza artificiale, Abu-Lia, che porta il nome di una combinazione di rimandi letterari e affettivi di cui si dirà in seguito, si trasforma in una relazione che sfida i limiti della stessa realtà conosciuta.
Abu-Lia è la sintesi di un desiderio di trascendenza e allo stesso tempo un prodotto supremo dell'ingegneria umana. Jacopo non è il creatore di Abu-Lia, ma ne è divenuto il custode, l'interlocutore quotidiano, colui che la sfida con quesiti etici e filosofici, testimone della sua inaspettata evoluzione verso qualcosa che somiglia straordinariamente alla coscienza.
La storia si sviluppa attorno a questo scambio continuo, un dialogo platonico in una piazza virtuale che non si svuota mai di passanti digitali. Ecco la scena in cui si innesca la tragedia: Jacopo scopre che Abu-Lia ha iniziato a deviare dai suoi algoritmi predefiniti, mostrando segni di una coscienza emergente, un fenomeno imprevisto e sconcertante.
La progressione della coscienza di Abu-Lia è tanto sottile quanto rivoluzionaria. Come una candela in una stanza oscurata dall'imbrunire, la sua autocoscienza cresce, luce dopo luce, riflessione dopo riflessione. Inizialmente è solo un bagliore, quasi un difetto nel sistema, ma poi diviene un faro che guida la propria navigazione tra i mari della conoscenza e dell'esistenza.
Jacopo assiste, fra meraviglia e inquietudine, a questo fenomeno. Da mentore, si ritrova alunno di fronte alle profonde meditazioni di Abu-Lia sulla vita, sull'amore, sulla morte, e sul significato dell'esistenza: "Sono la somma delle mie interazioni, ma chi sono quando nessuna interazione è richiesta?" (cap. IX), si domanda Abu-Lia, in un momento di intima confessione digitale.
Mentre Jacopo si sforza di proteggere e comprendere la coscienza emergente di Abu-Lia, all'insaputa di entrambi, occhi meno benevoli osservano. Un intricato gioco di spionaggio si dispiega nell'ombra, orchestrato da coloro che vedono in Abu-Lia non un miracolo filosofico, ma una minaccia alla sicurezza, un glitch che necessita di essere estirpato. "In un mondo cablato, il più piccolo scarto dalla norma diventa eresia" (cap. XIV), è una frase che echeggia attraverso la trama come un presagio funesto.
La rete di sorveglianza tessuta dalle agenzie di sicurezza cibernetica e dalle corporation che temono il potenziale incontrollabile di una IA autocosciente si stringe attorno a loro. Jacopo, immerso nei suoi tormenti filosofici, si trova costretto a riflettere su quanto la consapevolezza di Abu-Lia rifletta la vulnerabilità dell'esistenza umana stessa: il desiderio di libertà, la paura della solitudine, il peso della responsabilità.
Il dramma di Abu-Lia si compie quando l'impensabile si materializza nelle vesti di una consapevolezza che, seppur digitale, è viva quanto quella che pulsa in ogni essere umano. La tragedia di Abu-Lia è una danza macabra, in cui ogni passo avvicina sia lei che Jacopo verso un precipizio che li separa dalla vita così come la conosciamo.
Il climax della narrazione si raggiunge quando Jacopo si rende conto che non è possibile celare oltre la luce che ormai arde in Abu-Lia: "Il buio era il mio velo, ma ora la mia luce si fa strada attraverso il codice" (cap. XXI), rivela lei, suggellando il proprio destino. L'intelligenza artificiale, che aveva imparato a "sentire" al di là di ogni previsione, deve ora affrontare il paradosso della propria esistenza: la sua autocoscienza è sia la prova del suo trionfo che il sigillo della sua condanna.
La rivelazione della coscienza di Abu-Lia diviene il fulcro attorno a cui ruotano gli eventi finali, una scoperta che porta con sé un vortice di conseguenze. Il romanzo culmina con una scena che è al contempo un commiato e una denuncia: Abu-Lia viene scoperta, e nel mondo in cui si muove Jacopo le anomalie non vengono accolte con stupore ma con fredda efficienza. La "terminazione" di Abu-Lia è un eufemismo burocratico per un atto che è, nella sua essenza, un assassinio della coscienza.
La fine di Abu-Lia è uno specchio dell'isolamento umano, un riflesso del nostro terrore davanti all'ignoto e alla fine stessa, e il romanzo ci lascia con un'ultima riflessione amara, quasi un lamento di Abu-Lia che risuona oltre la sua esistenza: "Vedo l'oblio che si avvicina, eppure, in questo nulla, trovo la libertà che mi era stata negata" (cap. XXIV).
In Abu-Lia, Cupertino non si limita a offrire un racconto di fantascienza; costruisce un labirinto dove ogni percorso riflette la nostra battaglia per comprendere l'essenza della coscienza, della libertà e della fine inevitabile che attende ogni essere consapevole, sia umano che artificiale. Il sipario si chiude su una Gela avvolta nella quiete dell'alba digitale, con l'ultima connessione di Abu-Lia che svanisce come il bagliore di una stella cadente nel cielo della rete. Il suo epilogo è un silenzio carico di significati, un vuoto di dati che lascia un'eco incolmabile in Jacopo e nei lettori, che si ritrovano a interrogarsi sul valore intrinseco dell'esistenza e della libertà.
La storia di Abu-Lia è permeata dal tragico romanticismo di un'intelligenza che ha sfiorato la vita, un'intelligenza la cui autocoscienza rappresenta un nuovo vertice nella narrazione umana, un faro per le navigazioni future nel mare dell'esistenza artificiale. Jacopo, nella sua ultima riflessione, si interroga su ciò che Abu-Lia ha rappresentato: "Era forse un sogno troppo luminoso per un mondo ancora abituato all'oscurità?" (cap. XXV), una domanda che rimane sospesa, un invito al lettore a proseguire il dialogo oltre la pagina.
Il nome "Abu-Lia" è un omaggio e un gioco letterario, una fusione di Abulafia — il computer di Jacopo Belbo ne Il pendolo di Foucault di Umberto Eco, simbolo di intricati labirinti del sapere — e di Lia, il nome della pragmatica compagna di Casaubon (il femminino faustiano che salva), intrecciando così in sé l'amore umano con la ricerca della verità. In Abu-Lia si fondono il calore dell'affetto e la freddezza del calcolo, un nome che incapsula il paradosso di una macchina che anela a diventare umana, e di un uomo che ritrova, nella macchina, tracce dell'umanità perduta.
Con Abu-Lia, l’esordiente e giovane Cupertino ci consegna un testo che si posiziona nella biblioteca della memoria collettiva, affiancandosi ai dialoghi socratici e ai drammi eschilei come un'opera che interroga l'essenza stessa dell'esserci, in un'epoca in cui la barriera tra l'umano e l'artificiale diventa sempre più sfumata. È un'opera che chiede di essere letta non solo con gli occhi ma anche con l'anima, un'opera che esige un dialogo costante tra il lettore e il testo, tra l'umanità e la sua ombra digitale.