Riferendosi alla produzione letteraria di tutti i tempi, si è spesso parlato e si continua a parlare di autori “sempre attuali” che, sebbene da noi separati da un lasso temporale consistente, si ripropongono con forza quali profeti del loro e del nostro presente.
Nell’utilizzare il termine profeta, non voglio riferirmi all’accezione predittiva di questa figura, bensì al suo esistere e al suo persistere oltre la convenzionale percezione dello scorrere del tempo e degli accidenti che esso comporta.
In questi termini definisco Giuseppe Antonio Borgese (Polizzi Generosa, 12 novembre 1882 – Fiesole, 4 dicembre 1952) un profeta, un sempre attuale della nostra Sicilia. Fu scrittore versatile, abile nel destreggiarsi tra romanzo, poesia, drammaturgia e novellistica, saggistica e giornalismo. Dei suoi scritti ricordiamo Rubé (Treves, 1921), Le poesie (Mondadori, 1952), Lazzaro (Mondadori, 1925), Goliath, the march of Fascism (The Viking Press, 1937), Autunno a Costantinopoli (Treves, 1929).
Borgese fu profeta di questa nostra terra sotto molteplici aspetti che concernono vari episodi della sua vita: dal suo errare per motivi di studio o di lavoro al suo opporsi a politiche fasciste, causa per cui dovette trasferirsi negli Usa.
Proprio il primo aspetto, il suo essere viandante, ci illustra quale chiave di lettura bisogna applicare nel leggere la sua raccolta di 51 novelle, che l’autore considera come opera unica, quasi un romanzo, nella riedizione a cura di Gandolfo Cascio e Gandolfo Librizzi che mi accingo a recensire: Il pellegrino appassionato (Avagliano editore, Roma 2019; 422 pagine, euro 22). Ciò non tanto per l’evento del viaggio in sé, ma per la condizione quasi sospesa da cui ogni personaggio non riesce a fuggire, o meglio non vuole fuggire, come se fosse, afferma l’autore in Elvira, un “uccellino nato in gabbia, che ne vede lo sportello aperto e non ci vorrebbe restare, ma non si fida delle sue ali”.
Pellegrino è chi, persa una speranza, vaga per trovarne un’altra e non ha alcuna meta se non la stessa condizione dell’essere forestiero. Difatti i personaggi di Borgese, diafani ed inerti, nell’essere e nell’agire, non trovano una loro stabilità, ma si lasciano trasportare, o meglio sballottare da “questa bella porcheria,… la vita” “aggrappandosi [gli uni agli altri] per affondare insieme” (L’amore). Ma la condizione del Pellegrino non è propria solamente dei suoi personaggi. Borgese stesso nei suoi diari, tra l’altro citati nella nota editoriale del testo in esame, si autodefinisce pellegrino appassionato.
Proprio l’attributo appassionato sembra rimandare, quasi in un’abile allusione cristologica, alla Passio del Cristo, una travagliata Via Crucis che non termina se non con la morte. Un’ipotesi, questa, secondo me avvalorata dall’ulteriore ripresa dei testi evangelici nei suoi diari quando, citando Matteo (8,20) traspone in se stesso la condizione del “Figlio dell’Uomo [che] non ha dove posare il capo”. Ed è proprio questo che voi, cari lettori, potrete trovare nelle novelle di Borgese: uomini e donne che percorrono il cammino della loro vita, travagliati e annebbiati da innumerevoli pensieri che impediscono di agire. Un po’ come anche in Rubé, famoso romanzo dello stesso Autore, vedo in queste novelle una sorta di percorso descrittivo – perché di formazione non si può parlare – inverso che, partendo da descrizioni esterne apparentemente innocue, finiscono per mostrare l’interiorità consumata e marcia dei personaggi.
Personalmente leggo tra le righe delle novelle borgesiane un cromatismo che mi rimanda ad un rosso un po’ sbiadito, direi consumato, il rosso che possiamo ammirare nel cielo all’ora del crepuscolo. Ebbene quale colore migliore per l’opera di chi alla Poesia Crepuscolare ha dato il nome. Il rosso è il colore della passione intesa in entrambe le accezioni di desiderio e patimento; è il colore del tramonto, ma anche dell’alba; è un colore che arde, brucia e incendia; ma è anche il colore del sangue che scorre nelle vene di ogni uomo, ricordandogli al contempo la sua forza e la sua caducità.
È di ciò che Giuseppe Antonio Borgese era consapevole ed è ciò che impresse nelle pagine del suo Pellegrino Appassionato: il suo peregrinare tra Italia ed America, il suo fervore interventistico nella Prima Guerra mondiale ed il suo netto rifiuto al Fascismo, la fragilità del suo essere uomo sempre forestiero e l’impeto della sua penna “sempre attuale”. Ed è per questo che sul nome di Giuseppe Antonio Borgese il sole non è tramontato.