Graffiante e sensuale, ma anche pudico e riservato, e ancora sfrontato e provocatorio, ma pur sempre ritroso e puro.
Infatti, cosa vi è di più puro dei flussi incessanti di parole, che sgorgano dal nero inchiostro dell’intimo umano? Cosa di più provocatorio della cruda imperfezione dell’uomo? Cosa di più sensuale del fascino che incute Silvana Grasso nei suoi lettori? E di questa seduzione è frutto la pubblicazione della sua raccolta di poesie, “Me pudet. Poesie 1994 – 2017” (Edizioni ETS, 2019), fortemente voluta e magistralmente curata, anche per quanto concerne la parte critica, da Gandolfo Cascio.
L’edizione di questo volume è il risultato di un iter tracciato da quelle che Cascio definisce sue “noiosissime insistenze” sommate a “un momento di debolezza” di Silvana Grasso.
La scrittrice siciliana, originaria di Macchia di Giarre, sebbene abbia spesso pubblicato in prosa, ha sempre nascosto, celata nell’ombra dei suoi romanzi e dei suoi racconti, la sua naturale predisposizione alla poesia. Ma ecco che finalmente la Silvana Grasso poeta esce allo scoperto e mostra ai suoi lettori la sua intimità.
Leggendo tra le righe dello scritto, notiamo come la vergogna del titolo strida, apparentemente, con il contenuto delle liriche. Questa vergogna, a mio modesto parere, si presta a due differenti, ma non necessariamente contraddittorie, interpretazioni: la prima è esposta nel libro come “il disagio dell’autrice a esporre la parte più segreta e seducente della sua scrittura”; la seconda potrebbe essere una conseguenza di quello che definirei “l’inconcluso poetico”, vale a dire la consapevolezza dello scrittore che, rileggendo le sue composizioni, è certo di aver detto il comunicabile, ma allo stesso tempo è cosciente di non poter dire l’inesprimibile.
Sia pure il poeta chi “profondamente adori ogni bellezza”(E.A. Poe), ma la Grasso non si accontenta di ricercarla in ciò che è ordine e compiutezza, e deve, e vuole cercarla nell’anomalia, nell’indefinito. Riprendendo e riadattando le parole di Gandolfo Cascio, la poesia di Silvana Grasso è “metafora dell’imperfezione esistenziale che coinvolge indistintamente la mitologia, la natura e il divino”, è un “graffio nella compattezza della perfezione”, in cui perfezione non è sinonimo di bellezza.
A parte poche eccezioni, le liriche della Grasso si mostrano nere e serpeggianti nello scorrere della pagina bianca. In tal senso si può parlare di versi liberi e sciolti, sia da punto di vista metrico sia per quanto riguarda l’aspetto visivo. Essi – i versi – non vogliono e non possono rimanere relegati nella staticità di un automatico, computerizzato allineamento di testo. Nemmeno la predefinizione di un computer riesce a ingabbiare il fluire della libidine poetica dell’autrice.
Sul piano stilistico, come anche afferma Cascio nella sua postfazione, Silvana Grasso adotta e fa suo il modus operandi della poetica ellenistica. Ne sono espressione i temi erotici e mitici, i toni grotteschi mischiati ad un lessico aulico, la brevitas dei componimenti e il ritmo incalzante dei versi. Difatti, tenendo fede alla definizione di “ellenistica”, nella scrittura della Grasso si può facilmente rintracciare una vera e propria mescolanza soprattutto sul piano lessicale, nel quale sono riscontrabili termini arcaici, sicilianismi, latinismi, termini volgari od anche rari e aulici.
Questo fenomeno avviene anche sul piano tematico, ma qui preferirei utilizzare il termine contaminazione. In effetti, i vari componimenti, a mio parere, fanno eco ad un aspetto peculiare della cultura e del pensiero propriamente siciliani.
La storia di quest’isola le ha infatti donato – ciò può dirsi sia della Sicilia che della Grasso – sia una cultura contaminata che oscilla tra cristianesimo e paganesimo, tra oriente e occidente, tra progresso e voglia del passato, sia un pensiero autocommiserativo ed edonistico, ossessivamente legato a piaceri sempre diversi e di breve durata.
L’insieme di questi elementi conduce a condividere il richiamo a Guttuso che Cascio inserisce nella postfazione. Il realismo che guida entrambi, Guttuso e Grasso, infatti, descrive il reale adottando i suoi stessi meccanismi, dal mutamento all’imperfezione.
Invitandovi caldamente e ben volentieri alla piacevole, quanto pungente, lettura di questa silloge poetica, lascio la parola a chi realmente sa usare le parole e da esse si lascia usare: il filologo classico e poeta che si nasconde in Silvana Grasso. Timida epifania, Me pudet, della poetessa “latitante”.