Se volessimo chiamare le cose per quello che sono, il patto di Santo Stefano del 2014, siglato da Eni, Stato, Regione, Comune, Sindacati e Confindustria, dovrebbe passare alla storia come il protocollo della “Morte della Raffineria di Gela”, perché ad oggi particolarmente in ciò, l'accordo sottoscritto dalle parti sopra citate, ha trovato una fedele e puntuale attuazione. In cambio di cosa? Finora,
in cambio solo di aria fritta. Anzi, ci correggiamo: finora in cambio di prebende, palliativi, molliche e… aria fritta.
Bastava leggerlo, quel protocollo, per intuire la beffa. Lo hanno chiamato il protocollo di Gela pur sapendo che riguardava Gela e la raffinazione (downstream) solo per il 20% circa. Il restante 80% del protocollo riguardava l'attività estrattiva (upstream), con parti in causa Eni, Regione e Stato. In quel 20% si è ufficialmente decretata la fine della raffinazione convenzionale a Gela. Con tutte le conseguenze rivelatesi devastanti senza contromisure e che, oramai, sono sotto gli occhi di tutti.
La costruenda green refinery, che sostituirà la raffinazione convenzionale, avrà un impatto economico ed occupazionale sul territorio drasticamente ridimensionato rispetto al passato, con trentadue milioni di “compensazioni” a corredo. Il migliaio del “diretto” si è già ridotto a poche centinaia ed a regime la green refinery vedrà letteralmente dissolversi l'indotto.
L'economia di Gela e del comprensorio, alquanto vasto secondo quel che ha svelato l'area di crisi complessa, ha subito una ferita mortale ed è agonizzante.
Se volessimo chiamare le cose per quello che sono, il patto di Santo Stefano del 2014, siglato da Eni, Stato, Regione, ComEni ha deciso di riconvertire la sua presenza a gomito con la città, rinunciando a raffinare l'oro nero, che continua però ad estrarre anche dalle nostre parti, per raffinare invece oli vegetali, oli esausti da cottura ed oli ricavati da alghe e dai rifiuti.
Nel frattempo utilizza il molo per inviare ad altri lidi di raffinazione il petrolio estratto a Gela e non solo. Ad oggi, lo ribadiamo, la green refinery è un espediente per dire che l'Eni non raffina più petrolio, ma rimane comunque in loco, non abbandonando Gela sebbene sulle bonifiche continua a latitare. Ad oggi – e non temiamo smentita alcuna al riguardo – la green refinery rappresenta una scommessa approssimativa, quasi aleatoria, piuttosto che un vero e proprio investimento programmato nel lungo periodo. Tanto che l'ad De Scalzi si è già affrettato a dichiarare in audizione parlamentare, che tra gli oli vegetali non verrà utilizzato l'olio di palma, a differenza di quanto più volte dichiarato in precedenza. La cosa non ci sorprende affatto, considerato che un recente studio europeo aveva dimostrato che il biodiesel ricavato dall'olio di palma emette CO2 in quantità quasi 4 volte maggiori rispetto al gasolio. Un imbroglio, a dir poco, clamoroso.
E dopo quello libico, Gela sarà punto di approdo anche del metanodotto maltese. Rappresentanti della Repubblica di Malta, con ambasciatrice in testa, sono venuti a dircelo a casa nostra, ospiti di un'amministrazione che aveva fatto visita a Malta giorni prima. E' la prima fase di un progetto che, anche se a distanza di alcuni anni, prevede in una seconda fase la realizzazione di uno stoccaggio Gnl in quel di Malta, per l'appunto, mentre sullo studio di fattibilità dello stoccaggio Gnl a Gela, incluso a chiare lettere nel famigerato protocollo del novembre 2014, è calato un silenzio tombale da parte di Eni. Sul “Guayule”, di cui si accennava nel protocollo, stendiamo un velo pietoso.
Certo, paragonandoli all'ingente somma che dovrebbe essere destinata all'area di crisi complessa di Termini Imerese, i 20 milioni previsti per l'area di crisi complessa di Gela (e relativo comprensorio), appaiono francamente pochini. L'amministrazione in carica è stata accusata di un accordo al ribasso. Noi ci limitiamo ad osservare che 20 milioni, destinati non solo a Gela ma anche ad un'altra ventina di comuni coinvolti nell'area di crisi, sono ben 12 milioni in meno delle stesse compensazioni che l'Eni nel protocollo ha previsto solo per Gela.
Ed a proposito dei 32 milioni di compensazioni, a distanza di quasi 4 anni dal protocollo, non esiste ancora un progetto di sviluppo economico/infrastrutturale del territorio degno di questo nome, sbattuto in faccia ad Eni, al fine di impegnare una buona parte di tale somma. Lasciamo volentieri al lettore, ogni valutazione in merito, mentre imperversa sui social la sterile polemica sull'accordo tra Eni e Cnr che stabilisce a Gela uno di 4 centri di ricerca, quello sulla tanto scientificamente agognata fusione nucleare, da finanziare con 20 milioni di euro. Un qualcosa che se dovesse vedere realmente la luce, sarà non prima del prossimo quinquennio. Insomma, ci si bagna come al solito prima di piovere e magari manco pioggia ci sarà.
Ciò che non può essere messo in discussione, invece, è che in 50 anni il pet-coke ha rappresentato una grossa ricchezza economica, tradottasi perlopiù in crescita senza sviluppo. Ma anche considerevoli danni ambientali ed alla salute, specie all'epoca del “parastato”, in assenza di una politica di controlli, poiché si era in una condizione in cui il controllore (cioè lo Stato) ed il controllato (sempre lo Stato) di fatto coincidevano. Gela aspetta ancor oggi di essere risarcita dallo Stato per lo scempio perpetrato in quegli anni.
Lungo questo mezzo secolo, a pensarci bene e con onestà intellettuale, il “cane a sei zampe” si è comportato come chi “generosamente” si comporta quanto dall'altra parte si ritrova semplicemente una mano con un piattino. Ciò che l'Eni continua a dare è ciò che la città, attraverso la sua “classe dirigente”, continua a chiedere: la mancia. Ecco allora la fontana, il campetto sportivo, i soldini dell'estate gelese, i convegni, i seminari, i corsi di formazione ed iniziative varie. L'ultima della serie è la ricerca delle radici di Gela per guardare al suo futuro, con tanto di slogan, nuovissimo ed originalissimo, “Gela si può”. Tutto qui: prebende, palliativi, molliche e … aria fritta.