Mafia o no, il finanziamento dei partiti, attraverso le tangenti, le finte consulenze e tante altre astuzie di un’ingegneria del malaffare ben collaudata, è tornato al centro del dibattito politico a causa di molti episodi di corruzione, così frequenti che, secondo alcuni opinionisti attendibili, saremmo già dentro la seconda “tangentopoli”.
C’è chi lo invoca e chi auspica la cosiddetta via americana, cioè la regolarizzazione dell’attività di lobbying, di casa in una società liberale in cui il pubblico regola e amministra poco.
Le alternative ci sarebbero, ma solo sulla carta. Il ritorno al finanziamento pubblico poggia sui partiti, capisaldo della democrazia e strumento di mediazione fra la società e le istituzioni, ma i partiti sono scomparsi come associazioni in cui si discute, ci si confronta e si decide attraverso regole democratiche.
Liste bloccate, sistema maggioritario, rimborsi elettorali, leaderismo hanno cambiato tutto. Il capo decide chi candidare e chi eleggere. Le donazioni dei privati, tracciate o sottobanco, giungono al capo, che grazie ad esse mantiene il potere incontrastato all’interno del proprio schieramento.
In questo contesto viziato e turbolento si svolge la campagna elettorale per le Europee e per le amministrative a Gela dove, come altrove, le soperchierie sono ignorate o quasi a causa del persistere di una cultura politica nella quale ogni episodio, anche il più molesto, viene giudicato naturale, e la competizione elettorale diviene una resa dei conti, la corsa verso un traguardo estraneo alle istituzioni cittadine, agli interessi della comunità ed al servizio pubblico o la necessità di procurarsi una indennità per gli anni della consiliatura.
I candidati sono una categoria dello spirito. Abbandonano parole, gesti, pensieri, sentimenti per disporsi anima e corpo alla competizione senza intralci di alcuna natura.
Accanto ai solisti, voltagabbana, riciclati, ci sono naturalmente gli “unti”, vocati alla missione e, sull’altra sponda, lobbisti informati sulle opportunità che la governance offre. E’ una categoria ancora in fase di rodaggio, che si sta ritagliando uno spazio fra coloro che vivono di politica e quelli che vivono per la politica, e crede che si possano perseguire vantaggi personali senza tradire l’interesse pubblico.
Le considerazioni fin qui proposte sono stimolate da informazioni sulle candidature gelesi, che segnalano una tendenza: un lobbismo aggiornato, che non vuole correre rischi, non delega le scelte, non solo perché non si fida ma per portare ai livelli decisionali il know how, la competenza, la rete del business strutturata. La responsabilità di fare le carte e tenere il banco non può essere affidata alla lealtà spoglia e fragile.
C’è dell’altro. Il Comune di Gela in dissesto finanziario cede una fetta di sovranità amministrativa. E’ l’equivalente di una procedura fallimentare, si affida a commissari il compito di affiancare gli amministratori durante il tragitto che conduce alla stabilizzazione dei conti. Non sarà più possibile mungere la vacca perché non ha latte, insomma.
Ed allora ci si concentra su opzioni alternative. Stando ad alcune dichiarazioni pubbliche di un candidato-sindaco c’è da aspettarsi uno sfruttamento intensivo del territorio attraverso il ritorno alla “manica larga” nelle costruzioni edilizie e nella pianificazione urbanistica.
O un patto di non belligeranza con le più forti ed integrate realtà industriali, come l’Eni (o quel che rimane), su cui puntare fiches diligenti e di ampio respiro. Insomma, sedere al tavolo, pretende il calibro più alto, tiratori scelti con occhio di, lince e pensieri veloci; non è più tempo di seconde file. Qualunque sia l’assetto politico-amministrativo, saranno i più attrezzati a decidere le sorti di Gela.
Ed i più attrezzati, stando ai nomi che circolano, stanno prevalentemente da una parte sola. Non serve Sherlock Holmes per scoprirlo, basta dare un’occhiata alle liste dei candidati e spuntano gli Orfani del Superbonus con la loro “ammiraglia”