Non è nostalgia. Da trent’anni sono stati abbandonati lavoratori, pensionati, quartieri, fabbriche, campagne, con la sinistra che ha fatto da spettatrice innanzi a politiche che hanno indebolito il salario e penalizzato in maniera perpetua i pensionati, sui quali pende continuamente la scure del governo.
Quei pensionati che da anni rappresentano l'ancora di salvataggio per 3 milioni di lavoratori (e rispettive famiglie) che non riescono a sbarcare il lunario e giungere a fine mese, in quanto inflazione e salari inadeguati determinano un impoverimento anche di chi lavora.
Se a ciò aggiungiamo il profilarsi di politiche ed ipotesi come l'autonomia differenziata ed il paventato ritorno, magari sotto mentite spoglie, delle "gabbie salariali" contro cui si schierò il mondo del lavoro pagando anche un costo in vita umane, si spiega perché il Pci è tornato, con il suo simbolo storico. A Roma, a Palermo come a Gela.
A confermarcelo è Totò D'arma, nominato su delega del segretario nazionale Muro Alboresi e di quello regionale, Marco Filiti, coordinatore pro tempore del Pci gelese, in attesa di eleggere il segretario cittadino, «sul quale – ci anticipa D’arma - c'è già comunque un'indicazione».
Per chi non lo conoscesse, Totò D’arma (foto D’Arma), sindacalista, politico, più volte consigliere comunale, assessore, è un esponente storico della sinistra cittadina e del Pci in particolare. Come tanti altri, aderì al Pds, poi ai Ds ed infine a quel Pd di cui l’Ulivo fu precursore: «non penso di essere stato l’unico comunista – ci confessa – che con la nascita del Partito democratico della sinistra, nemmeno immaginava tutta questa trafila evolutiva, in nome di un vocazione governativa da guadagnare e la cui contropartita è stata un costante arretramento su precise battaglie, denunce, rivendicazioni, a difesa della democrazia, delle libertà, dei diritti sociali e dei più deboli. E’ come se rinunciando aprioristicamente all’idea di essere opposizione, ci fossimo sopiti».
Un letargo piuttosto lungo. «Diciamo che nell'ultimo trentennio – prosegue - sono state recise le radici che legavano in qualche modo un partito di massa alla società, con il Pd che ha perso un po' la bussola durante il cammino, diviso da correnti che lo rendono una sorta di società per azioni a livello nazionale, mentre a livello territoriale i circoli, che dovrebbero rappresentare la base, escono allo scoperto e vengono utilizzati alle urne ed ai gazebo come agenzie elettorali. Ma più in generale, la sinistra deve recitare il mea culpa. Siamo stati assenti e ciò ha permesso alla destra di avanzare».
In una prospettiva che si articola e procede lungo tre direttrici fondamentali. «In primis, c’è un contesto internazionale che non possiamo sottovalutare – osserva - e nell'ambito del quale nessuno sembra voler mettere, nemmeno minimamente, in discussione un neoliberismo che sta generando storture palesi. Siamo in una fase in cui in pochi decidono su temi fondamentali: l'intelligenza artificiale, la salute e la sanità, la scuola e la ricerca scientifica, le politiche ambientali ed alimentari. Dobbiamo inserirci e diversificare le presenze nei circuiti decisionali internazionali, recuperando terreno sul piano di alcune tesi irrinunciabili, come la pace, i due Stati in Palestina, la ripresa di una politica del disarmo, sui quali siamo stati – ribadisce - letteralmente latitanti nell'ultimo trentennio.
Ciò serve anche a rafforzare sul piano nazionale – sottolinea D’arma – uno Stato che deve occuparsi della gente che soffre, in un'ottica di superamento delle dinamiche conseguenti al neoliberismo ed al capitalismo mobile, quali la delocalizzazione, gli extraprofitti, le plusvalenze finanziarie, eccetera. A livello locale, poi, è fin troppo evidente che ci sono manifeste criticità che vanno affrontate, svegliandoci dal sonno in cui la classe politica del territorio, non solo la sinistra, si è rifugiata. Gela è un città dormiente.
Una città che deve riattivarsi sebbene il sopraggiungere del dissesto dell'ente comunale non sarà affatto d'aiuto. Ma c'è un margine d'azione consentito sul piano progettuale. Personalmente, ad esempio, non capisco perché non c'è stata una direttiva, un’iniziativa in un settore in crisi ma ancora trainante e con il più alto numero di addetti, come quello agricolo, per il quale si potevano presentare progetti che intercettassero finanziamenti dal copioso e ricco Pnrr, per magari intervenire sulle dighe. Peraltro, perché non mettere a disposizione i milioni di royalties vincolati a determinate destinazioni d'uso, come le infrastrutture, per risolvere il problema della diga Disueri?».
E ci sono imminenti elezioni amministrative a Gela. «Stiamo provando – conclude – a costruire una lista propria. Se non ce la facessimo, valuteremo le nostre diponibilità e quelle altrui. Proveremo a dialogare con chi non nega le nostre tesi, con forze affini e senza veti verso candidature, nel pieno rispetto reciproco. In un modo o nell’altro saremo in campo per giocare anche noi la partita».
Per i più giovani, il Partito comunista italiano (Pci) è stato il maggiore partito comunista dell'Europa occidentale. Antifascista e filosovietico, acquisì man mano una certa autonomia di pensiero già con la guida di Togliatti, fino a prendere le distanze dallo stalinismo, specie con la segreteria di Berlinguer che portò il Pci nel 1976 a rappresentare, da solo, un terzo del paese. Questo non significò disconoscere il marxismo ed il leninismo, anche quando Berlinguer accettò l'invito lanciato dal presidente della Dc, Aldo Moro, in riferimento ad un'ipotesi di "convergenze parallele". Le quali sfociarono nel "compromesso storico".
Quest'ultimo si estrinsecò in un "appoggio esterno" al Governo, che si interruppe bruscamente con il rapimento e l’uccisione di Moro da parte delle Brigate rosse. A parte questa piccola parentesi, il Pci fu sempre all'opposizione e non entrò mai in una compagine di governo. Sei anni dopo la morte di Moro (1978) seguì quella di Berlinguer (1984) a causa di un ictus. Cinque anni dopo, crollò il muro di Berlino, e fu la fine della Guerra Fredda e dei due blocchi ideologici, con la morte dei partiti di massa. Tra cui anche il Pci. La “svolta della bolognina” fu promossa nel 1989 dal segretario Achille Occhetto e due anni dopo, nel 1981, il Pci passò il testimone ad un nuovo partito della sinistra, il Partito democratico di sinistra (Pds), cui non aderì un corrente minoritaria guidata da Cossutta e che fondò il Partito della rifondazione comunista (Prc) e di cui fu una costola anni dopo il Partito dei comunisti italiani (Pdci).
A Gela diverse sezioni aderirono al Pds ed esponenti locali come Speziale, Donegani, Arancio e via di seguito. Gli stessi passeranno ai Democratici di sinistra (Ds) e poi al Partito democratico (Pd) con elezioni a raffica all'Assemblea regionale siciliana. Nelle fila del Prc, invece, viene eletto deputato nel 1992 Guglielmo Lento, rieletto nel 1995 in quota Sinistra democratica-Ulivo, per poi confluire nel Partito dei comunisti italiani. Stesso cammino per i fratelli Crocetta, ad iniziare dal tre volte senatore Totò Crocetta, due volte eletto nelle fila del Pci e l'ultima nelle fila del Prc.
Nel 1998 passa al Pdci e ne diventa segretario regionale. Prova la corsa a sindaco di Gela ma non ce la fa. Ci riesce invece nel 2004 il fratello Rosario Crocetta. Già assessore in quota dei Verdi in cui era transitato dopo aver abbandonato Rifondazione, passa ai Comunisti italiani, per poi entrare nel 2008 nel Pd nella cui lista, un anno dopo, viene eletto europarlamentare. Quindi nel 2012 l'elezione a Presidente della Regione siciliana. Tra gli esponenti dei comunisti italiani vale la pena di ricordare anche Totò Morinello, assessore regionale ai beni culturali (che nominò Rosario Crocetta suo consulente) alla fine del secolo scorso, durante la presidenza Capodicasa.