L’elettorato italiano è passato dalla immobilità della prima repubblica, durante la quale perfino l’onda lunga faceva la differenza
con mezzo punto percentuale, a una fluidità del voto che premia e boccia severamente gli schieramenti politici. Si registrano movimenti elettorali di venti, trenta punti percentuali nell’arco di cinque-dieci anni. Questa tendenza si accompagna ad un altro fenomeno, la desertificazione delle urne. Le due componenti del nuovo mondo politico, apparentemente contraddittori, meritano una diagnosi che superi le tifoserie e la prospettiva di piccola distanza, per definire il minimo comune denominatore fra le due tendenze.
I seggi erano affollati e le passioni accese nei primi 40-50 anni; oggi, prevale il disincanto, lo scetticismo, l’insofferenza e la diffidenza. Il Paese ha raggiunto, alla fine, le percentuali di votanti statunitensi, che rappresentano la più grande democrazia del pianeta. Giudicare questa marcata diversità come una perdita secca per le istituzioni parlamentari, è del tutto legittimo, a patto che si analizzi il fenomeno in chiave planetaria, tenendo conto cioè di quanto accade nei paesi democratici, e della incontrovertibile circostanza che chi diserta l’urna, affida ai votanti la sua scelta, la qualcosa non mi sembra scelta giudiziosa.
Sulle motivazioni della disaffezione le analisi sono in corso. Per quanto mi riguarda, sono dell’avviso che a disamorare l’elettorato concorrano due elementi: i modelli di comportamento delle rappresentanze istituzionali e il populismo, entrambi protagonisti della involuzione, entrambi insidie pericolose per la democrazia. Piuttosto che destrutturare il sistema lo abbattono dall’interno, tradendo gli strumenti che la democrazia ha promosso per fare bene il suo mestiere.
Esco, a questo punto, dalle analisi generiche. La cronaca politica regionale ha fatto registrare recentemente una impennata degli ascolti grazie ad un voto segreto dell’Assemblea regionale siciliana, che ha aumentato di 890 mila euro gli stipendi dei deputati regionali. L’episodio in sé non desta sorpresa, è la modalità con la quale i deputati regionali hanno raggiunto lo scopo che ha suscitato legittime critiche. I parlamentari hanno espresso il loro parere favorevole con un voto segreto alle tre del mattino, orario inconsueto per i lavori d’Aula, ma consueto quando si deliberano aumenti indigesti per l’opinione pubblica. E’ parso che si aspettassero l’indignazione dell’opinione pubblica e temessero perciò che dando notizia di ciò che si stava per fare, sarebbe stato compromesso il risultato. Insomma, la cattiva coscienza ha suggerito di mettere sul fatto compiuto l’inevitabile dissenso. Se avessero scelto di spiegare le buone ragioni dell’aumento stipendiale, assai probabilmente, le conseguenze sarebbero state meno nefaste. Il dubbio, però, non se lo pongono nemmeno gli artefici del blitz notturno, perché in cima ai loro pensieri c’era il risultato e non il consenso dell’opinione pubblica. E ciò spiega, più di tante analisi politologiche, la disaffezione degli elettori verso le urne.
I cronisti parlamentari si sono meravigliati per le modalità con cui il voto è stato espresso, più che per l’incremento, che risponde ad una norma di adeguamento al costo della vita stabilito dall’Istat. Ma c’è di più, che suggerisce anche agli occhi attenti della stampa. I parametri utilizzati per l’aumento dello stipendio, sono ben diversi da quelli che i comuni mortali ottengono, perché gli sono indicati in percentuale; se si parte dall’asticella alta, il risultato è vistoso e sta sotto i nostri occhi: un abisso rispetto a ciò che avviene fuori dalle mura. Il criterio percentuale non è una scelta casuale: è il mezzo, legittimo, il salto di qualità del reddito viene messo sotto copertura, definendo una falsa omogeneità. Chi guadagna di più, incassa di più; gli incrementi sono esponenziali. Ma questa è solo la punta dell’iceberg.
Sono tante le informazioni che non arrivano sulla piazza, e quando ci arrivano avvie ne con difficoltà. La riservatezza è, infatti, uno dei beni di conforto nei due rami del Parlamento nazionale e nella ex terza Camera, l’Assemblea regionale siciliana. E’ regola, non scritta ma salda, così vecchia da essere chiamata arcana imperii, che significa letteralmente “segreti del potere”; ereditata dalla tradizione e conservata dall’ingegneria stipendiale delle Camere, giustifica la necessità di conservare negli scaffali più segreti dei palazzi, ciò che non deve essere conosciuto dai sudditi. Proprio così, la tradizione si rifà a temi così remoti da considerare i cittadini, nulla di più che sudditi. Studiare come sia sopravvissuta, sarebbe perciò di grande interesse.
I privilegi del Parlamento siciliano sono stati una spina al fianco dell’autonomia ed hanno finito con il deteriorarne l’immagine, al di là dei danni provocati all’erario, al punto da suscitare il corale disamore dei siciliani. Nonostante ciò, tuttavia, le regioni del Nord, e la maggioranza del governo nazionale, in questi giorni hanno messo in cantiere una legge che allargherà la specialità dell’autonomia a tutte le regioni, con una prevedibile ricaduta negativa sulle aree del Paese che scontano un atavico deficit di servizi (scuola, sanità, infrastrutture ecc.), ed una base reddituale più bassa. Le pressioni esercitate dal leghismo “di ritorno” (la Lega è tornata nordista a vele spiegate, dopo il tentativo, fallito, di colonizzare il sud), testimoniano un dato incontrovertibile: che amministrarsi da sé e con le proprie risorse, è ritenuto un mezzo per rendere migliori i servizi e potere utilizzare risorse che oggi distribuite su base nazionale secondo un principio di equità e solidarietà. Il quesito è d’obbligo: il plus valore al quale puntano le regioni del nord è uno specchietto per le allodole oppure l’autonomia è stata utilizzata come peggio non si sarebbe potuto? La risposta è inequivocabile: gli strumenti che la democrazia si è data, sono generalmente validi, a patto però che siano usati convenientemente. L’autonomia serve se è usata con buonsenso nell’interesse pubblico.
Il complice malefico del cattivo amministratore è il populismo, oggi vincente, che ha creato una devastante contrarietà verso gli organi istituzionali e gli strumenti essenziali di ogni democrazia (partiti politici), facendo credere che siano gli strumenti, e non la maniera con la quale sono utilizzati, il problema da risolvere. Il nemico è la “casta”, e la casta abita i palazzi: tutto da gettare nel cestino.
Servono alcuni esempi. L’Assemblea regionale siciliana dispone di norme, al pari delle due Camere, intese a salvaguardare presidi di libertà ed autonomia: l’autodichia, l’assenza di vincolo del mandato parlamentare, l’immunità, la segretezza del voto (in alcune circostanze…), la maggioranza presunta nelle sedute d’Aula.
L’autodichia nasce con l’Ars, grazie al collegamento con il Senato della Repubblica sin da primo vagito; è una prerogativa che impedisce ingerenze esterne al Parlamento, attraverso un organismo giurisdizionale interno, il Consiglio di Presidenza. Grazie all’autodichia, l’Assemblea non deve necessariamente allinearsi alle leggi dello stato (emolumenti, benefit, assunzioni del personale e relativi stipendi ecc.). Nel tempo il presidio, da salvaguardia democratica si è trasformato in un’oasi di privilegi: stipendi scandalosi e benefit altrettanto scandalosi.
Anche l’assenza del vincolo di mandato per il deputato risponde allo stesso bisogno, impedire che la sua libertà possa essere coartata (dal partito, dal gruppo parlamentare di appartenenza). Sulla carta è così, ma in concreto è sorto il partito dei franchi tiratori; si è fatto un uso “degenere” della libertà da parte del deputato, divenendo fonte di intrighi e congiure. L’assenza di vincolo permette ai deputati di cambiare bandiera tutte le volte che vogliono, tradendo l’elettore che l’ha votato come rappresentante di uno schieramento politico. L’immunità parlamentare risponde alle stesse esigenze di salvaguardia del mandato. L’indipendenza del parlamentare va mantenuta anche verso altri organi istituzionali (giurisdizionali). Nei fatti è stata utilizzata come copertura di scandalosi episodi corruttivi. La risposta, promossa dal populismo, è stata quella di tagliare, derubricare, cancellare, modificare malamente i presidi della democrazia, a discapito della democrazia parlamentare. Un giorno o l’altro, qualcuno sarà applaudito se, dopo avere fatto un bilancio negativo del Parlamento, proponesse di chiudere battenti a un’aula sorda e grigia.
La lista si può allungare. La maggioranza presunta è una norma che permette all’Assemblea di lavorare anche se non è presente la maggioranza dei deputati eletti, come vuole una norma. Bastano due deputati per far lavorare il Parlamento regionale, a meno che non venga richiesta la conta dei presenti da almeno cinque deputati. La deroga ha buone motivazioni: l’Aula rimarrebbe inattiva, perché il numero dei presenti non raggiunge spesso il numero richiesto (la metà più uno). Ma c’è l’altra faccia della medaglia: servono cinque deputati, presenti, per chiedere la conta dei deputati. Di conseguenza, l’Aula procede nella sua attività con quattro gatti.
Anche la dotazione di risorse economiche ai partiti ha le sue buone ragioni, altrimenti sarebbero i “capitali” a determinare gli schieramenti politici. Un referendum ha bocciato i contributi ai partiti con una maggioranza bulgara 30 anni or sono circa; ebbene, il giorno dopo la legge bocciata è stata sostituita da un’altra che delibera i contributi elettorali, più corposi rispetto al finanziamento dei partiti. Con una variante: le risorse vengono affidate ai capigruppo parlamentari, non più alle segreterie politiche, con il risultato che i partiti non contano più niente, e i parlamentari decidono l’agenda politica. I partiti non detengono più i cordoni della borsa; gli schieramenti possono così nascere, dall’oggi al domani, dopo una cena fra amici. Se le leggi elettorali hanno scippato agli elettori il potere di scegliere per chi votare, una ragione c’è.
Il blitz dei parlamentari regionali sull’aumento degli stipendi con il favore della notte, in definitiva, è solo una nota di colore. Ma è questa, purtroppo, che fa notizia. La nostra è davvero una regione sventurata: non basta far male le cose, si ingegna a presentarle nel modo peggiore possibile.