La Sardegna torna ad 8 enti intermedi così come fu pensato dalla politica sarda agli inizi del nuovo secolo (2001), sconfessando però il referendum popolare del 2012 in cui i sardi avevano bocciato le 4 nuove province che si erano aggiunte a quelle storiche.
Allora, il sempre più imperante populismo alimentava un sentimento anti-casta che puntava l’indice contro le poltrone provinciali. Ma solo 4 anni dopo, la maggioranza degli italiani che si recarono alle urne, bocciarono la proposta di abolizione delle province nel referendum costituzionale del 2016, svuotando di significato la legge “Del Rio”, con l’unico effetto di aver tolto solo le indennità, negando ai cittadini il diritto di scegliersi i propri rappresentanti.
Sicché, laddove in Sardegna, regione a statuto speciale, si raddoppiano gli enti intermedi rispetto a quelli che avevamo conosciuto nel secolo scorso (con adesso le 2 città metropolitane di Cagliari e Sassari, più le 2 province di Nuoro e Oristano, a cui si aggregano Medio Campidano, Ogliastra, Nord Est Sardegna, cioè Olbia-Tempio e Sulcis Iglesiente, cioè Carbonia-Iglesias) ed addirittura si triplicano i capoluoghi (diventati 12), nella Sicilia anch’essa a statuto speciale con competenza esclusiva (legislativa) in tema di enti locali, non si muove una foglia.
A nulla è valso l’encomiabile lavoro dell’allora Comitato per la Provincia di Gela, di cui l’attuale Comitato per lo sviluppo dell’area gelese (Csag) è figlio, capace addirittura di proporre all’Ars la prima legge di iniziativa popolare, a livello nazionale e non solo siciliano, in materia di istituzione di nuove province, con migliaia e migliaia di sottoscrizioni. Non solo, a nulla sono valse due delibere consiliari ed un referendum popolare votato favorevolmente dai cittadini sia di Gela, che di Piazza Armerina, Niscemi e Licodia Eubea (grazie all’azione di comitati promotori, che a Gela fu il Csag), non tanto per costituire una nuova provincia, ma giusto per transitare da un ente intermedio ad un altro.
Tutto deve rimanere com’è, i confini degli enti intermedi non si toccano perché coincidono con i confini dei bacini elettorali per l’Ars. Anche a costo di commissariare gli enti e procrastinare per quasi 10 anni le elezioni (di secondo grado) dei vertici apicali (Presidenza e Consiglio), che secondo l’ultimo rinvio dovrebbero - il condizionale è assolutamente d’obbligo - svolgersi nel prossimo autunno, con il ricorso al Tar che i comitati promotori del passaggio a Catania sono pronti a tirare fuori dal cassetto.
Nell’edizione di martedì 11 maggio del "Corriere della Sera", a proposito delle province sarde, Gian Antonio Stella si chiedeva e ci chiedeva se valesse “veramente la pena, in questi tempi di magra e di pandemia, raddoppiare le province con capoluoghi di 5.283 anime”. Se ponessimo la questione sul piano della dell'efficacia, efficienza e rendimento amministrativo che questa riorganizzazione degli enti locali dovrebbe postulare, specie nella coesistenza di due capoluoghi, si potrebbe guardare ad altri casi simili.
Invero, le esperienze del Verbanio-Cusio-Ossola in Piemonte, di Cesena-Forlì in Emilia Romagna e di Brindisi-Andria-Trani in Puglia, hanno visto col tempo svanire le iniziali perplessità con cui erano partite. Ma il co-autore (con Sergio Rizzo) del best seller "La Casta", ovviamente, pone soprattutto la vicenda sul tema dei costi e ne fa sostanzialmente una "questione di poltrone", evidenziando come le forze di maggioranza che sostengono l'attuale amministrazione regionale sarda, sia un centrodestra in cui alcuni esponenti erano dichiaratamente a favore della soppressione delle province e di una Lega locale che con Salvini si è detta favorevole solo a province con almeno 300 mila abitanti. Insomma "la casta" pur di appagare la fame di poltrone è disposta a sconfessare se stessa nelle dichiarazioni passate oltre che l'elettore nell'espressione del voto referendario.
Una linea di pensiero, quella del giornalista, saggista e scrittore di Asolo, che non condividiamo. In primo luogo, un aumento del numero di province non è un automatico aumento dei costi. Se ieri un “tot” veniva distribuito a 4 province e da domani lo stesso “tot” verrà distribuito ad 8 province, quel “tot” non cambia: a cambiare è solo la sua redistribuzione. In secondo luogo, a nostro avviso, con l'eliminazione del voto diretto popolare per l'elezione degli organi politici di vertice degli enti intermedi, ai sensi della “Del Rio”, stiamo pagando un prezzo (alto o basso, lo lasciamo dire ad altri) sul piano della democrazia a cui fa da contraltare un irrisorio risparmio nei costi.
A venir meno sono state solo le indennità. Le province sono rimaste. I suoi organi di vertice devono funzionare e ad ogni seduta comportano costi che continuano ad incidere a bilancio. Le strade vanno manutenzionate, le scuole idem e così via. Quale sarebbe il risparmio: la gratuità delle cariche? Una sciocchezza, se paragonate agli stipendi dei dirigenti della p.a., alle consulenze che la p.a. paga, ai mega stipendi dell'alta burocrazia, dell'alta magistratura, ecc. Un’inezia rispetto ai veri “poltronifici” come nel caso di organi a rilevanza costituzionale salvati dal referendum costituzionale del 2016.
Un becero populismo che continua a puntare l’indice contro le province, ma nulla continua a dire contro comuni di pochissime migliaia di anime, se non centinaia, dove di fatto, quando le poche famiglie che vi abitano decidono di riunirsi, è praticamente come convocare un consiglio comunale, mentre nell’eleggere un sindaco, possono decidere di farlo “a giro”.
Nei comuni di poche centinaia di abitanti, che sono frazioni praticamente attaccate l'una all'altra e che ricevono persino appositi contributi statali, oltre i trasferimenti ordinari, l'elezione del sindaco e del consiglio è una scampagnata sovvenzionata dallo Stato. Insomma, nello “stivale dei campanili”, qual è appunto la cosiddetta «Italia dei Comuni», nulla abbiamo contro le 5000 realtà sotto i 5000 abitanti che rappresentano il 70% del totale dei comuni italiani, con il primato che va al Piemonte (1.046 comuni) che precede d'un soffio la Lombardia (1.036 comuni). Anzi, ne esaltiamo la vivacità e l’operosità. Ma continuare a mantenere quasi 2000 abitati con meno di 1000 anime (quasi tutti al nord) e non considerarli “caste famigliari”, a noi sembra un autentico controsenso, laddove nel frattempo si è arrivati a negare l’elezione diretta per la guida politica di enti territoriali di area vasta.