Gela è nata grazie all’emigrazione rodio-cretese, ed ha cambiato pelle mille volte. L’emigrazione è stato il fenomeno più rilevante nello sviluppo della relazioni umane fra popoli di etnia, lingua, religione e cultura diverse. La Sicilia, per fare l’esempio più vicino alla nostra storia, è il risultato di un’intensa, continua e forte immigrazione prima, e di una altrettanto intensa, continua emigrazione poi. C’è stato il tempo dell’immigrazione, attraverso le conquiste, e non solo, e il tempo dell’emigrazione di siciliani in fuga dalla povertà o da una esistenza grama.
Questa specialità siciliana connota l’identità dell’Isola: un ossimoro, l’identità di una antropologia spoglia di identità prevalente, che avrebbe dovuto caratterizzarsi in una cultura esemplare dell’integrazione e dell’accoglienza. Ed in qualche misura così è stato, fino a che la politica, quella con la “p” minuscola, votata ad un pragmatismo e un’assenza di valori disarmanti, non si è impadronita delle e dei costumi prevalenti.
Così una questione planetaria, autentica tragedia collettiva dei nostri tempi – come la fuga dai paesi d’origine di popolazioni angariate dal dispotismo, affamate, vittime di guerre e violenze, o semplicemente alla ricerca di una vita degna di essere vissuta – è diventata oggi uno squallido strumento di ricerca del consenso attraverso la vecchia inesausta rivendicazione di uno dei tanti articoli dello Statuto speciale della Regione siciliana rimasti sulla carta, l’art.31, che assegna al Presidente regionale il potere di disporre delle forze di polizia e delle prefetture.
Allucinante, se si va indietro nella memoria di qualche anno, quando l’Assemblea regionale siciliana, in testa l’attuale parte politica che fa riferimento al governatore, ha tradito lo Statuto, schierandosi di fatto per la permanenza delle province, che la specialità siciliana rinnega.
La memoria corta della politica compie miracoli. Il governatore della Sicilia Nello Musumeci ha di recente invocato l’attuazione dell’art. 31 allo scopo, così ha spiegato, di salvaguardare la Sicilia dall’arrivo dei migranti nell’hot spot di Lampedusa, dove i barconi della speranza giungono per trovare l’approdo più vicino al Paese europeo più vicino.
La Sicilia non subisce un destino cinico e baro, ma la sua storia e la sua posizione geografica. Come accade in tanti altri paesi del mondo, dall’Asia all’Africa, l’Australia, le Americhe.
I rimedi finora pensati in Europa e nel Mediterraneo per frenare l’esodo dei migranti vanno dall’impossibile blocco navale o la disumana chiusura dei porti ai barconi con tutto il loro carico umano, agli infami patti di contenimento (Turchia, Libia, Tunisia) e agli aiuti economici ai Paesi di forte emigrazione.
Il governatore della Sicilia si è armato dell’art.31 per risolvere il problema planetario. Trascurando, per modo di dire, l’origine dell’esodo (le disuguaglianze e le ingiustizie sociali, il dispotismo e la corruzione cause di disastri umanitari nel mondo). E dimenticando che un paese come l’Italia, con le sue migliaia di chilometri di coste (e i suoi confini a nord pressoché incontrollabili), sarà sempre, come in passato, una terra di approdo sprovvista di mura di muri.
La preoccupazione del governatore è giustificato dal contagio del virus pandemico provocato dai migranti. Una cosa senza capo né coda: i migranti partono sani ed arrivano, contagiati dopo essere stati sistemai negli hot spot l’uno sopra l’altro. eufemismo, per giorni.
La recente crescita dei contagi in Italia, è chiaro a tutti, viene dagli ospiti paganti, i turisti, dalle nostre abitudini vacanziere e dalla voglia di dimenticare il virus e farci quattro salti in discoteca. Meno male che il Billionaire di Briatore, accessibile solo agli straricchi, con il suo focolaio endemico, ha aperto gli occhi a chiunque, regalando una imprevedibile “innocenza” ai migranti.
Eppure, nonostante sia chiaro a tutti, che cioè quella dei migranti è una questione di rilevanza planetaria e nulla ha a che vedere con il Covid 19, il Governatore siciliano ha disseppellito l’art. 31, richiesto la stella dello sceriffo della Sicilia e ordinato la chiusura dell’hot spot di Lampedusa, con una ordinanza che è stata subito sospesa dai giudici amministrativi siciliani, com’era abbondantemente previsto.
Perché ha ingaggiato una causa persa? Perché ha utilizzato i migranti per il suo conflitto istituzionale fuori tempo massimo e senza speranza di successo?
Il movente non ha niente a che vedere con la Sicilia, riguarda l’area politica cui il governatore appartiene che aveva, ed ha bisogno, di battere la grancassa dell’emigrazione – cui si addebitano i contagi come prima si addebitavano, falsamente, i crimini – per rimettere in circolo le paure della gente comune alla vigilia di una tornata elettorale assai impegnativa per l’opposizione e la maggioranza di governo. Il gioco vale la candela, insomma, anche se si tratta di una causa persa.
Vorrei che si spiegasse perché nessun uomo delle istituzioni siciliane abbia mai rivendicato in passato la guida delle forze di polizia (questure e prefetture) nei decenni in cui la mafia imperversava e lo Stato appariva debole e distratto, giudicando il crimine organizzato un affare siciliano e basta.
Pochi ricordano un editoriale di Indro Montanelli, apparso in prima pagina sul Corriere della Sera, nel quale il grande giornalista metteva sul banco degli imputati il governo regionale, cui la Costituzione assegna i poliziotti per ripulire la Sicilia dal crimine organizzato. La mafia, insomma, nasce e cresce in Sicilia, nonostante gli ampi poteri di contrasto affidati ai siciliani. Proprio così, la Sicilia cornuta e mazziata.
Per questa ragione, ed altre, il disseppellimento dell’art. 31 per fermare il contagio e i migranti, ci pare oltre che un alibi insulso, una intollerabile strumentalizzazione, un torto ed una ingiustizia verso gli sventurati in fuga, anche una presa per i fondelli che reclama vendetta. Con tutto il rispetto, s’intende.