Sono bastate poche ore per i più avveduti, ci sono voluti giorni interi per tanti altri, al fine di capire che il protocollo sottoscritto il 9 dicembre 2019, non contraddice quello del 2014 e dunque non lo sostituisce.
Semmai, lo integra. Insomma, ci troviamo di fronte ad un "addendum" al protocollo di Santo Stefano del 2014, come è stato giustamente osservato. Un'aggiunta, integrativa, arrivata però 5 anni dopo, anziché i "canonici" 60 giorni che oramai ricorrono pressoché in ogni accordo, a cui rinviava lo stesso protocollo.
Bisognerebbe chiedersi allora il perché.
In realtà, dopo anni in cui nessuno faceva veramente pressione in merito, in cambio della autorizzazione alla proroga via per il progetto Argo-Cassiopea, Eni ha accontentato una forza di governo nazionale.
Ovvero, il movimento grillino ed una delle sue 5 "stelle", l’anima ambientalista ed ecologista, mettendo nero su bianco su impegni che la multinazionale di San Donato Milanese, con la riconversione industriale e la green refinery, aveva già sostanzialmente preso, ma che non aveva ancora chiaramente esplicitato, da un punto di vista tecnico e temporale.
E quando il segretario politico di Sviluppo Democratico, Simone Siciliano, chiede di quale "decarbonizzazione" si parla in concreto e come novità rispetto a ieri, poiché «la vecchia raffineria non opera più dal lontano 2014 e non è più autorizzata ad operare per decadenza dell’Autorizzazione Integrata Ambientale.
La nuova bio-Raffineria è autorizzata con emissioni zero di CO2», la risposta - piaccia o non piaccia - è proprio nell'art.1 del protocollo integrativo del 9 dicembre, laddove per "decarbonizzazione" del sito, si intende «un progetto che si basa sull’applicazione di tecnologie innovative di proprietà Eni, con l’obiettivo di realizzare un processo integrato di cattura e riutilizzo dell’anidride carbonica, che sarà convertita in materiale cementizio e bio-olio, conseguendo una notevole riduzione delle emissioni di GHG dirette, nonché di promuovere un modello di sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale, economico e sociale».
Lo avevamo scritto nella scorsa edizione del giornale, all'indomani della firma di questa sorta di accordo bilaterale tra Eni e ministero dell'Ambiente. Il protocollo "carbon zero" di cui si parla, oggi meglio specificato come “addendum al protocollo del 2014”, consta di soli due articoli in cui Eni si impegna (art. 1) a rinunciare definitivamente ad assetti di produzione e lavorazione di oli minerali, procedendo entro dieci anni alla dismissione di tutti gli impianti e tutte le strutture che non siano utilizzati nel processo produttivo di biocarburanti, ubicati in un perimetro di 20.2 ettari di terreno. Il ministero si impegna (art.2) ad affiancare ed agevolare la controparte nel percorso autorizzativo che accompagnerà gli impegni presi, anche e soprattutto sul piano temporale.
Lo avevamo scritto, come tanto altro abbiamo scritto sulla problematica industriale e sui rapporti tra Eni ed il territorio. Ma una cosa siamo noi, altra cosa – ci mancherebbe altro – è quando ad affermare le stesse cose è il vertice di Rage (nella foto il presidente Francesco Franchi) e quello Enimed convocati dal consiglio comunale. Sicché oggi, per bocca del management del cane a sei zampe direttamente dentro la casa comunale, si apprende “ufficialmente” che lo studio di valutazione del progetto del “gnl” ha rivelato che non è sostenibile per l’azienda; che il progetto pilota guayule è ancora tale, in fase di sperimentazione e sviluppo; che buona parte della logistica a terra per il progetto Argo-Cassiopea interesserà Porto Empedocle; che delle estrazioni dei due pozzi citati (Argo e Cassiopea) al territorio di Gela non arriverà nulla in termini di royalties.
Sfidiamo chiunque ad obiettare che dal 2014 ripetiamo che sono solo due le potenzialità del protocollo del 2014: la logistica integrata (interporto) che Eni accetterebbe di buon grado anche sviluppando un business come quello dello stoccaggio e distribuzione del gnl che esula dal core business aziendale; nonché lo yard industriale che permetterebbe al “know-how” locale di non essere più indotto e di rimare in loco a lavorare permanentemente anziché andare a lavorare altrove, una volta entrata a regime la green refinery. E da anni scriviamo che queste due potenzialità non si realizzeranno mai senza apporti infrastrutturali adeguati, a partire dal porto. E più volte siamo intervenuti in questo giornale a chiarire che sulle estrazioni a mare aperto, come nel caso dei pozzi sopra citati, il comune di Gela (come nessun comune costiero d’Italia) non recepisce gettito in royalties.
Infine, sulla “caduta di stile” del vertice apicale della nuova bioraffineria di Gela che ci consiglia di leggere i dati sul tabagismo e quant’altro, al fine di comprendere appieno perché ci sono morti di cancro e malformazioni neonatali, vorremmo sorvolare, tanto è lo sdegno che proviamo innanzi a situazioni di questo tipo. Ci limitiamo, invero, ad osservare che assistere ad un manager che non accetta la visione e men che meno la tesi di un petrolchimico bollato come male assoluto, ci può stare benissimo.
Ma mettere sullo stesso piano il tabagismo, gli scarichi delle auto, con le emissioni in atmosfera di una raffinazione convenzionale basata sul pet-coke, nonché, soprattutto, con l’attività “killer” della chimica poi abbandonata non a caso negli anni, è una forzatura di cui potevamo benissimo fare a meno, specie all’interno dell’aula consiliare. Del resto, anche questo lo abbiamo scritto a chiare lettere, il cane è stato sempre abituato ad alzare una delle 6 zampe e ad “urinare sulla testa dei gelesi” grazie ad una politica supina del piattino e la tentazione per il manager di turno, anche in questa occasione, è stata forte. Chiediamo venia per il cinismo, ma non ci stupisce affatto.