Quando l'allora presidente della Regione Siciliana, Rosario Crocetta, promise in diretta domenicale sulla Tv di Stato che la Sicilia sarebbe stata la prima regione e a riformare le province, era già difficile immaginare che la Sicilia sarebbe stata in realtà l'ultima delle Regioni a farlo, figuriamoci la circostanza che vede questa Regione essere ancora l'unica a non averlo fatto.
Da quell'annuncio di Crocetta nel programma di Giletti nel 2013, le province si sono viste commissariate fino alla primavera del 2020. In tutto sono ben sette anni (addirittura 8 per le province di Caltanissetta e Ragusa commissariate dopo la L.r. 14/2012 durante il governo Lombardo) e siamo, con tutta evidenza, decisamente fuori dal recinto democratico, come nelle peggiori dittature del "terzo mondo".
La ragione è la conclamata incapacità del legislatore siciliano, intervenuto ripetutamente in cinque anni con fughe in avanti e clamorosi passi indietro, a mezzo di diversi tamponi legislativi incoerenti e tutti ispirati dalla ferma volontà di far passare come "riforma" un semplice cambio di denominazione dei 9 enti intermedi isolani. Per il resto tutto deve rimanere invariato, a partire dai collegi elettorali, coincidenti con i territori dei nove enti di area vasta prefettizi.
L'unica concessione fatta dall'Ars all'impianto legislativo statale, è stata “oborto collo” (su decisione della Consulta) quella di rinunciare all'elezione diretta degli organi di vertice (Presidenti e consiglieri) uniformandosi alla "Del Rio" per quanto concerne le elezioni di secondo grado.
Per cui, si dovrebbe votare in una domenica d'aprile del prossimo anno, ma il condizionale è d'obbligo. Sulle elezioni pende infatti il ricorso dei comitati referendari di Gela, Piazza Armerina e Niscemi che il Tar ha congelato e su cui il Tribunale Amministrativo Regionale sarà comunque chiamato ad esprimersi non appena saranno presentati "i motivi aggiunti" al ricorso, successivamente all'emanazione della delibera di giunta e del decreto assessoriale di indizione delle elezioni.
La mancata riforma delle province in Sicilia affonda le sue radici a molti decenni prima, anzi si può ragionevolmente asserire che il suo è un "vizio" all'origine. In ossequio al più becero populismo, nella diretta televisiva nazionale sopra richiamata, Crocetta invero si spinse oltre, dichiarando che la Sicilia sarebbe stata la prima Regione ad "abolire" le province e non semplicemente a riformarle. Quello che il resto della popolazione italiana non sa infatti è che lo Statuto siciliano ha abolito le province prefettizie ereditate dal fascismo già nel 1946 rimpiazzandole con i "liberi consorzi" di comuni (artt. 14 e 15 Statuto).
Lo Statuto Speciale siciliano presenta elementi fortemente innovativi sul piano dell'autonomia locale e regionale senza per questo incoraggiare istanze isolazioniste e rimanendo invece in un quadro di unità nazionale. La Costituzione entrò in vigore due anni dopo lo Statuto Speciale ed il grande errore storico fu il non adeguare lo Statuto del '46 alla Costituzione del '48 immediatamente, lasciando invece che a decidere su alcuni punti fosse più tardi la Corte Costituzionale.
La conseguenza fu quella di assimilare questa Regione a Statuto Speciale sempre più a quelle di diritto comune, con l'aggravante della logica centralistica dei partiti "romani", favorevoli ad un'ottica centro-periferia e non il contrario, coincidente invece con il principio di “sussidiarietà” che lo Statuto siciliano del '46 anticipa e che solo diversi decenni dopo sarà ripreso dall'Unione Europea.
Nella morsa partitocratica, gli esponenti politici siciliani hanno teorizzato una natura "pattizia" alla base dei rapporti tra la Sicilia e lo Stato, approfittandone per tradurre l'autonomia speciale, in autoreferenzialità, giustificandola con l'esercizio di alcuni poteri non concorrenti ma paralleli a quelli dello Stato, per poi rientrare nei ranghi quando si tirava troppo la corda.
La politica siciliana non ha più innovato anticipando quella Statale, accodandosi piuttosto alle "riforme" nazionali attraverso il mero ricorso al recepimento, peraltro il più delle volte in ritardo, quasi a tradire una certa ritrosia.
Il tema degli enti intermedi e la competenza esclusiva della Regione nel disciplinarne la materia, estrinsecatasi nel corso della storia repubblicana in autoreferenzialità politica senza però contrapporsi al centralismo partitico romano, è uno degli esempi più calzanti in tal senso.
L'art.15 dello Statuto siciliano sopprime le 9 province e dispone che «l’ordinamento degli enti locali si basa nella Regione stessa sui Comuni e sui liberi consorzi di comuni, dotati della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria», ribadendo quanto stabilito nell'art.14 e vale a dire la legislazione esclusiva in materia di enti locali e relative circoscrizioni.
Da un lato lo Statuto liberava il governo locale dal controllo prefettizio statale esercitato attraverso l'ente intermedio, sostituendo le province statali appendici del controllo “centrale”, con enti di area vasta che fossero “libera” emanazione dei comuni. Ne derivava una natura di enti pubblici non territoriali non "originari" ma derivati dai comuni, i cui consiglieri eleggevano i consigli consortili attraverso cioè elezioni di secondo grado.
La politica regionale invece non ha accettato questa logica, preferendole quella delle Province Statali, cioè enti pubblici territoriali con elezioni di primo grado e quindi livelli di governo in posizione intermedia tra comuni e regione, con un proprio "indirizzo politico", un relativo apparato burocratica, oltre che dotati di autonomia finanziaria ed amministrativa.
Dopo "la fase transitoria" durata un trentennio, la L.r. 9/1986 ha confermato le 9 province prefettizie, istituendo i liberi consorzi comunali con la denominazione di “province regionali”, laddove la L.r.17/2013 – quasi un trentennio dopo – compie l’operazione inversa ma identica sul piano della dissimulazione, sopprimendo le “province regionali” ed istituendo al contrario i liberi consorzi, ch rimangono però 9 come prima.
La successiva L.r. 8/2014, a cui rinvia la L.r. 17/2013, crea peraltro un pasticcio: nell'istituire i liberi consorzi di Palermo, Catania e Messina, accanto quelli di Siracusa, Trapani, Agrigento, Caltanissetta, Ragusa ed Enna, si aggiunge l'istituzione delle Città metropolitane di Palermo, Catania e Messina, individuandole territorialmente sulla base delle Aree Metropolitane del 1995 (enti sub-provinciali mai attuati). Si creano così 12 enti intermedi, con la possibilità per i comuni di lasciare l'ente intermedio d'appartenenza ed aderire ad altro ente intermedio. E' ciò che fanno le comunità di Gela, Piazza Armerina, Niscemi e Licodia Eubea, con delibere comunali e referendum popolari confermativi, in aderenza allo spirito statutario.
La L.r. 15/2015 corregge il pasticcio ed omologa il territorio delle tre città metropolitane di Palermo, Catania e Messina a quello delle tre ex province regionali, seguendo l'esempio dei 6 liberi consorzi restanti: consorzi liberi di nome ma obbligatori di fatto. Sicché, gli enti di area vasta tornano ad essere 9 come le precedenti “province regionali” da cui del resto ereditano le stesse funzioni (integrate da qualche altra), lo stesso ordinamento organizzativo-burocratico, gli stessi territori.
Ciò comporta la previsione di una norma transitoria, l'art. 44 per le comunità di Gela, Piazza Armerina, Niscemi e Licodia Eubea, che rinvia ad una “legge provvedimento” che l'Ars si ostina ancora oggi a non voler approvare, proprio per non toccare i confini territoriali e cioè i confini dei bacini elettorali, in aperta violazione del principio di democrazia (sia rappresentativa che diretta così come stabilito da delibere dei consigli comunali e referendum approvati dai cittadini) e di autodeterminazione dei popoli, nonché soprattutto del principio di legalità.
In conclusione, dall'annuncio di Crocetta abbiamo dovuto registrare il commissariamento dei presidenti e dei consigli dei liberi consorzi oltre che quello dei consigli delle tre città metropolitane. Quest'ultime dal 2016 hanno sindaci metropolitani in carica perché coincidenti - come impone la "Del Rio" - ai sindaci eletti nei comuni capoluogo, ma senza i consigli metropolitani non possono nemmeno definire i rispettivi Statuti.
Nel resto d'Italia le Città Metropolitane sono entrate in funzione dal 2014, hanno approvato i rispettivi Statuti, siglato accordi con le Regioni e lo Stato, partecipato a bandi pubblici europei a conferma di una loro dimensione anche sovranazionale. Ciò spiega le potenzialità del passaggio ad esempio di Gela, Piazza Armerina e Niscemi alla Città metropolitana di Catania, non solo frutto di una scelta di “stomaco” dettata dalla volontà di abbandonare Caltanissetta ed Enna.