Dal momento che la Russia non potrà essere mai sconfitta militarmente da nessuno (piuttosto Putin userebbe l'atomica), l'unica speranza di liberarsi di questo folle e sanguinario dittatore (degno compare di altri mostri della storia, come Lenin, Stalin e Hitler) sta nella possibilità che un complotto interno lo spazzi via, o che sia il popolo russo a gettarlo giù dal suo trono di sangue, attraverso una ribellione popolare che diventi autentica rivoluzione.
Ma per fare questo ci vorrebbe un trascinatore, un uomo intelligente e carismatico, capace di farsi amare dal popolo, capace di essere il leader di tutti. Capace anche di scatenare una dolorosa guerra civile.
Questo però non era nel volere di Aleksei Navalny, uomo che ha sempre lottato contro il regime putiniano con grande determinazione, ma sempre con mezzi pacifici. E' indubbio però che nessuno come lui era temuto da Vladmir Putin. E questo è il motivo per cui il quarantasettenne dissidente, avvocato, attivista e blogger, ha trovato la morte nella Siberia del Nord, nel carcere di Kharp, la colonia penale IK-3, meglio conosciuta come “lupo polare”. Lo “zar” voleva la fine di quest' uomo. E' bastato dare il comando e gli ordini sono stati eseguiti.
Così, oggi la scomparsa di Navalny appare non solo per i milioni di russi che amano la libertà, ma anche per l'occidente democratico, più grave di una sconfitta militare sul campo.
Infatti, con la morte dell'uomo che diede vita al Partito liberal-nazionalista “Russia del futuro” e che è stato candidato al Premio Nobel per la pace nel 2021, nello stesso anno in cui gli era conferito il Premio Sakharov, se ne va la persona che più di qualunque altro era stato capace di insidiare Putin, di denunciare le sue politiche e la corruzione imperante nella Duma. Ma lo “zar” consapevole dell' immunità di cui gode (le sanzioni economiche dell' Occidente? Il mandato internazionale per crimini di guerra per il feroce conflitto in Ucraina? Barzellette!) ha voluto ribadire al mondo la sua forza che si basa sulla politica della prevaricazione, dell'assassinio del terrore.
D'altronde, egli sa pure di non essere solo nello scontro con il mondo libero. Ha alle spalle il colosso Cina e diversi stati “canaglia”, fra cui l'Iran e la Corea del Nord, pronti a spalleggiarlo laddove fosse necessario. Rimane il sacrificio di un uomo, che nel 2021, dopo essere stato avvelenato per mandato di Putin e salvato miracolosamente in Germania, ha avuto poi il coraggio di tornare in Patria per continuare la sua lotta, consapevole che come agnello andava a farsi sbranare dai lupi. La condanna a 30 anni di carcere (equivalente a un ergastolo) aveva già segnato il suo destino, ma i progetti del Cremlino su di lui erano diversi sin dall'inizio.
Così, dopo avergli fatto vivere le pene dell'inferno nei penitenziari più disumani della Russia, Navalny è stato ammazzato. Come? Probabilmente avvelenato, lo sport preferito da Putin, sebbene la verità non la sapremo mai.
Il fatto stesso però che il corpo dell'uomo non sia stato fatto vedere neppure alla madre è la prova provata che gli “assassini” vogliano nascondere la più elementare evidenza dei fatti. E magari quel corpo è già stato cremato e comunque non sarà mai più restituito alla famiglia, se non già incassato e sigillato. Nessuna pietà. Solo orrore, in questa vicenda che sconvolge, ma non può sorprenderci. Era chiaro infatti, che dopo la sentenza di condanna, Navalny veniva mandato a morire.
Così, come anche un bambino avrebbe subito compreso che Evgenij Viktorovič Prigožin, il comandante della brigata Wagner, dopo la sua ribellione nel giugno 2023 sarebbe stato ammazzato da Putin alla prima occasione buona.
E il suo assassinio avvenne appena due mesi dopo, il 23 agosto, con la misteriosa caduta dell'areo che avrebbe dovuto condurlo, si disse, in Bielorussia. Probabilmente se Prigozin avesse avuto il coraggio di portare sino alle estreme conseguenze il suo piano eversivo entrando a Mosca con i suoi mercenari, pur non essendo neppure lui era uno stinco di santo, sarebbe divenuto un eroe nazionale e forse avrebbe anche cambiato il corso della storia.
Letale invece è stato per lui fermarsi, e ancor più fidarsi di Putin che gli aveva promesso l'immunità. Ma se Prigozin ha fatto male i suoi calcoli pagandone le conseguenze. Rimane ad oggi non del tutto spiegabile il comportamento di Navalny di tornare in Russia per continuare la sua lotta politica. Avrebbe certo fatto meglio se avesse continuato a combattere fuori dal suo Paese, come ha detto pure Marina Litvinenko, vedova di Alexander Litvinenko, altro dissidente ucciso nel 2006 per avvelenamento.
La moglie di Navalny Julija Naval'naja invece, appresa la morte del marito ha dichiarato che continuerà a combattere per perpetuare la lotta contro la tirannia putiniana sino alla caduta dello “zar”. Intanto però, sul dissidente assassinato, rimane oggi un' importante testimonianza che ne rievoca la figura, raccontandone anche gli aspetti più controversi, grazie al film Navalny girato nel 2022 dal regista americano Daniel Roeher, che ha poi vinto nel 2023 il Premio Oscar quale migliore documentario dell'anno.