In giugno del corrente anno, giorno 8 e 9, i siciliani andranno alle urne per votare gli amministratori delle province siciliane undici anni dopo la decapitazione delle province, che però hanno sette teste e sette vite e dispongono di un esercito in armi imbattibile o quasi.
Nella storia repubblicana l’abolizione delle amministrazioni provinciali e delle elezioni dirette degli amministratori provinciali è la pagina più controversa e sotto molti aspetti inquietante della storia politica siciliana tanto da venire rappresentata anche come la metafora del declino politico della Regione siciliana, l’icona del tradimento dello Statuto speciale, il garbuglio politico più improvvido, la somma di ogni nefandezza.
C’è un episodio dal quale far partire la storia, che ha una data iconica e ci fa ancora arrossire: Il 3 marzo 2013 il Presidente regionale, Rosario Crocetta, ospite dell’Arena di Massimo Giletti, annuncia che “a partire da domani aboliremo le province, saremo la prima Regione a tagliarle”.
Ed in effetti pochi giorni dopo, il 27 marzo, viene approvata dall’Assemblea regionale siciliana la legge di attuazione dell’art.15 dello Statuto Speciale che disciplina l’istituzione dei Consorzi comunali per l’esercizio delle funzioni di governo di area vasta, in sostituzione delle province regionali. Ma fatta la legge, come ci ricorda un vecchio detto, è stato subito trovato l’inganno.
La riforma dell’architettura istituzionale in Sicilia subirà presto attacchi e critiche aspre e incontrerà una opposizione irriducibile sotto banco o alla luce del sole. Votata la legge quasi per forza d’inerzia e corrispondere ad una campagna contro gli sprechi apprezzata dall’opinione pubblica, i deputati regionali riflettono sulle conseguenze. La prima e la più temuta è che i Consorzi renderanno contendibili molte posizioni politiche consolidate, rimescolando le carte in modo imprevedibile e devastando antiche clientele pazientemente raccolta in decenni di impunità.
Ma non è tutto: i Consorzi rivolterebbero come un calzino anche la struttura burocratica e amministrativa, sconvolgendo carriere radicate; modificherebbero la mappa degli enti, pubblici e privati e delle associazioni di categoria (sindacati) delle sedi dei presidi di sicurezza, le stesse funzioni dello Stato (Prefetture, Questure) e la pianificazione dei servizi (sanitari, scolastici ecc.). Una rivoluzione alla quale la Sicilia non è affatto preparata e che le burocrazie dei capoluoghi non accettano e predispongono le barricate. Il garbuglio è così intricato che i riformatori si volatilizzano, gli autonomisti sono inesistenti e con essi le buone ragioni della riforma e della sua legittimità costituzionale, che poggia teoricamente sull’attuazione dello Statuto speciale.
Le perplessità divengono contrarietà, che trovano terreno fertile in un limbo legislativo, creato a ragion veduta. L’Assemblea ha infatti deciso che cosa fare, ma non come farlo, che tipo di riforma attuare. I margini, dunque, per impantanarla ci sono, e su di essi si avventano coloro che l’hanno votata, e quanti l’hanno avversata. Il Presidente dell’UPI, che rappresenta le province, Antonio Saitta, offre ai “contras” un ancoraggio politico alla opposizione, nascosta o palese.
“In Sicilia si sta facendo un’operazione di trasformismo”, sostiene, “votando una legge bandiera che non affronta i veri nodi e che aggiunge nuova burocrazia anziché snellire le istituzioni, razionalizzando le Province. Si rischia di passare, con i Consorzi, dalle 9 province attuali a 33 Consorzi e tre città metropolitane”. E conclude: “La Legge regionale e il Commissariamento delle Province sostituiscono di fatto la democrazia con il sottogoverno”.
Le considerazioni di Saitta contengono inoppugnabili ragioni, sicché la volontà di semplificazione e di un abbassamento dei costi, provocati da milizie e pretoriani, al servizio di partiti, correnti, capibastone e cacicchi locali, perde l’aura di cosa buona e giusta, la lotta agli sprechi, e con essa la bandiera ideologica, che si ritrova senza condottieri contro un nemico risoluto e dotato di ogni strumento per affossare il più timido tentativo di modernizzazione.
Il ritorno agli antichi assetti viene accolto con un sospiro di sollievo, ma i commissariamenti restano in piedi. Il governo della Regione, le forze politiche che lo sostengono (una galassia fluida), il centralismo regionale, duro quanto quello nazionale, scoprono i profitti politici di una gestione centralizzata ed autoritaria delle province. Il Presidente della Regione ha esercitato un potere di vigilanza, controllo e direzione politica sui commissari, di fatto figure apicali della amministrazione regionale.
La controriforma, che fa ripartire tutto dalla prima casella, come nel gioco dell’oca, sancisce la fine dei commissari e della precarietà. Dieci anni di destabilizzante precarietà promuovono l’antica architettura, che può misurarsi con il decennio devastante che sta per concludersi. L’elezione diretta degli amministratori provinciali cancella ora l’ultima traccia del tentativo riformatore.
Ammantare di ideologia e di pensiero politico e fedeltà o infedeltà alla Carta dei padri dell’autonomia siciliana, l’ingloriosa fine della riforma sarebbe una idiozia. Piuttosto che ascrivere le scelte alle categorie della controriforma e restaurazione, categorie che hanno una loro dignità storica e politica, segnalando profondi cambiamenti politici, ripristino di poteri cancellati, volontà di conservare l’ordine precedente, correggere abusi e rinnovare o conservare, la storia del decennio autoritario con i commissariamenti e le barricate antiriforma, va ricordato come un tempo di guerriglie politiche in difesa dell’esistente, durante il quale è prevalso il controllo del territorio e la manipolazione dei bisogni, le stesse regole non scritte di cui le mafie si sono servite ovunque ed in ogni tempo.
L’elezione diretta degli amministratori provinciali non riafferma l’autorità del popolo sovrano, ma il ritorno di una legione di militanti dispersa in cerca di capibastone, né migliorerà la percezione diffusa di una classe politica che manifesta una grave crisi di rappresentatività.
Forse occorre perciò guardare le cose per come sono, scostandosi perfino dalla realtà quanto basta per non esserne impoveriti; forse occorre fare i conti con idee e concetti dismessi, riflettere su regole plausibili e coerenti della classe politica e della classe dirigente, su limiti e doveri della partecipazione democratica e della cittadinanza attiva. La democrazia poggia su chiari ruoli e funzioni, diritti e doveri di ogni parte in causa.
Per evitare di rimanere vittime in futuro delle miserabili astuzie di politicanti detestabili, ripassiamo concetti abbandonati guardando al disastro siciliano, che ha trascinato con sé danni non indennizzabili (anche a Gela, referendum locale sul Consorzio di Catania).
La classe politica si compone dei rappresentanti eletti che hanno il dovere di assumere decisioni politiche a livello istituzionale; la classe dirigente si compone di una sfera più ampia, includendo figure che hanno una significativa influenza nei settori in cui operano. La partecipazione democratica, che ci chiama in causa tutti, pretende un impegno nei livelli decisionali: etica della responsabilità, presenza attiva nelle organizzazioni politiche, civiche e sociali (partiti, associazioni, sindacato ecc).
E’ una piramide, dunque, che sta in piedi quando poggia su una base resiliente e motivata. Chiediamoci se abbiamo fatto la nostra parte, a qualunque categoria si sia appartenuti. Chiediamoci anche se la partecipazione al voto basti a costruire fondamenta alla democrazia e se la battaglia combattuta con furore per depositare sull’urna i nomi di amministratori provinciali basti a rassicurarci sulla buona pratica della partecipazione democratica.