Dopo lo scioglimento per infiltrazioni mafiose nel 1991 e una instabilità amministrativa che non ha conosciuto pause, Gela conosce l’onta del dissesto finanziario.
E’ una sanzione che getta un’ombra sull’operato degli amministratori locali e ripropone in tutta la sua drammaticità la storia di una comunità vampirizzata dallo Stato, ignorata dalla Regione e umiliata dall’insipienza dei suoi rappresentanti.
La dichiarazione di dissesto era attesa, anzi improcastinabile per non aggravare ancora di più la misura delle conseguenze, ma resta il sigillo degli errori compiuti a Gela e del declino, ormai irreversibile, di una Regione, che ambiva al rango di stato federale con le sue leggi, regole, statuto, e che è oggi condannata ad inseguire i favori concessi dal governo centrale, subirne gli umori per sopravvivere.
Sarebbe superficiale e perfino scorretto, tuttavia, una analisi che mostrasse l’inevitabilità del dissesto in un contesto così critico: la questione è complessa e merita di essere indagata in profondità, anche per le implicazioni che il dissesto finanziario determina nelle comunità destinatarie del provvedimento. Seconda, dopo Catania, per popolazione, fra i comuni in crisi finanziaria, settima in Italia, Gela è il 65esimo comune siciliano a soffrire di un male ormai endemico, il deficit finanziario, che colpisce soprattutto il Mezzogiorno d’Italia, quasi a testimoniarne il sottosviluppo e il declino.
Prima che entrare nella questione specifica ed esaminarne le conseguenze, tuttavia, mi pare opportuno riflettere su un fatto: Gela è il territorio in cui lo Stato ha impegnato più risorse pubbliche che altrove nel Paese; è in testa nella classifica degli interventi straordinari del Mezzogiorno, per investimenti industriali e per le infrastrutture al servizio dell’industria. Ciò obbliga a prendere atto che la montagna di denaro pubblico assegnato a Gela non è servito a dare stabilità economica al territorio. Il dissesto finanziario del comune suggella il clamoroso fallimento dell’intervento straordinario e la miopia con la quale i governi nazionali, hanno affrontato la questione meridionale; o meglio, hanno impedito che fosse realmente affrontata.
Fra le cause del dissesto, indicate dalla letteratura in materia, accanto alla cattiva gestione, all’inefficienza ed ai casi di corruzione e malversazione, il debito eccessivo, c’è la mancanza di diversificazione economica, cui va prestata attenzione in modo particolare. E’ pur vero che il dissesto finanziario è in misura preponderante il risultato una combinazione di fattori di natura economica, sociale e di governance, ma un ruolo speciale lo gioca una base imponibile limitate ai fini delle entrate fiscali, cioè la presenza di un gran numero di residenti in condizioni di povertà. I comuni che dipendono fortemente da un settore economico o da un’attività specifica sono più vulnerabili alle fluttuazioni economiche, che hanno immediate implicazione sulle entrate. La disoccupazione e il deficit di servizi e infrastrutture (primarie e secondarie), aumentano le spese sociali degli enti locali.
Questo quadro di riferimento richiama la storia industriale di Gela, caratterizzata dall’obsolescenza del petrolchimico, peraltro prevedibile, e la perdita di posti di lavoro, che ha abbassato redditi e tenore di vita. Fino a che punto? Gela si è consolidata come vivace centro commerciale, ma la metamorfosi ancora incompiuta e appesantita da un terziario di risulta, privo di produttori locali, non sembra ottenere effetti di riequilibrio economico. L’impiego pubblico e privato, erogatore di risorse fiscali stabili, a Gela costituisce una fetta trascurabile fra le categorie sociali. I comuni capoluogo che ospitano una burocrazia affollata non fanno parte del bacino dissestato in Sicilia, con l’eccezione di Catania, dove però l’economia ha forti radici nel commercio. Qualche domanda questa analogia con Catania la pone sulle modalità con le quali il fisco rastrella le risorse.
Se mi fermassi a queste osservazioni, peraltro non sufficientemente confortate da uno studio specifico e approfondito, assolverei la pubblica amministrazione e la politica locale e regionale e trascurerei il merito della questione: il dissesto finanziario viene deliberato “quando il comune non sia più in grado di svolgere le proprie funzioni e di erogare servizi indispensabili, ovvero non sia in grado di assolvere a debiti liquidi ed esigibili”. L’approdo è determinato da alcuni fattori incontrovertibili: l’uso improprio di risorse, l’inefficienza, l’affidamento di appalti pubblici a soggetti non idonei, un inadeguato controllo dei conti.
Il dissesto chiama in causa dunque una responsabilità politica ed una responsabilità amministrativa. Le azioni e le omissioni sono dettate da decisioni politiche o da inefficienza e essere condizionate da circostanze sintomatiche e contingenti. Responsabilità politica e responsabilità amministrativa sono facce di una stessa medaglia. Quando si governa un comune per cinque anni, come nell’attuale contingenza, sembrano indistinguibili.
Le conseguenze sono gravi per la comunità locale: il dissesto provoca un aumento delle tasse comunali, il peggioramento dei servizi pubblici, l’abbandono e, talvolta, la perdita dei beni pubblici. Ben diverso si presenta la questione quando prevale la responsabilità amministrativa, ove venga giudicata causa principale dall’autorità contabile, perché può condurre ad una condanna risarcitoria ed a misure interdittive per gli amministratori: se riconosciuti colpevoli gli amministratori non sono candidabili per dieci anni alle cariche di sindaco o membri di consigli comunali, provinciali e regionali.
I casi in cui gli amministratori paghino per la loro presunta strafottenza, i comportamenti clientelari e omissivi, però si contano sulle dita di una mano, perché deve essere dimostrato che questi atteggiamenti siano di gran lunga prevalenti nelle cause del dissesto. Ciò che invece arriva con certezza, è la slavina provocata dal dissesto sulla popolazione residente. Per ben cinque anni l’amministrazione locale deve aumentare le aliquote e le tariffe di base delle imposte e tasse locali nella misura massima consentita dalla legge e non può contrarre mutui a proprio piacimento. La delibera non è revocabile per l’intera durata del quinquennio. Dovrebbero trarne vantaggio i creditori del comune, ma anche questa circostanza, l’unica positiva, è tutt’altro che certa, perché i pagamenti in conto competenza non possono superare un dodicesimo del totale impugnabile e il ruolo pervasivo della burocrazia non accelera lo smaltimento dei crediti.
Il risanamento, insomma, lo pagano i contribuenti, a meno che non si abbiano santi in paradiso, come nel caso di Catania, per il quale il governo nazionale è intervenuto con sostanziose immissioni di credito, necessarie per le spese di prima necessità. Mi chiedo chi dovrebbe perorare la causa di Gela a Palazzo Chigi o Palazzo d’Orleans, sede del Presidente regionale? Michela Brambilla, occupata com’è nella meritoria campagna di difesa degli animali domestici, tanto da trascurare le sedute d’aula del Parlamento, cui i gelesi l’hanno mandata?
Riprendo il filo della questione. Le attenzioni, per ora, sono riservate al ritardo con cui si è proceduto alla dichiarazione del dissesto, perché esso allungherebbe i tempi della crisi con le sue gravi implicazioni. Il tentativo velleitario di guadagnare tempo e rinviare la deliberazione di dissenso allo scopo di dissimulare una cronica crisi finanziaria potrebbe chiamare in causa gli amministratori.
Fin qui i fatti. Sorprende che la dichiarazione di dissesto del comune di Gela sia passata inosservata, o quasi, nei media. Le regole dell’informazione non deflettono: quando un evento, pur grave, si ripropone con frequenza, non fa notizia. Ma Gela non è un comune come altri, è stata la cavia dell’industrializzazione nel Sud d’Italia, inondata di denaro pubblico perché mostrasse al mondo il miracolo della redenzione, economica e sociale, attuato dalle partecipazioni statali e dalla munificenza degli Interventi straordinari nel Mezzogiorno. Possibile che non si colga il paradosso, sancito in maniera esemplare dal dissesto finanziario del comune?
E’ bene che questa tegola, ancora una, susciti il risveglio di una coscienza pubblica per molti versi latitante, per altri immersa in un torpore che l’ha resa inerme, debole, acquiescente agli eventi. Quanti sognano un processo virtuale, o reale, che mandi sul banco degli imputati i responsabili, è bene che si rimbocchino piuttosto le maniche, facciano un esame di coscienza e assumano la loro parte di responsabilità, impegnandosi nella misura in cui possono farlo. Il fallimento non è solo il risultato degli spudorati tradimenti compiuti a Roma o a Milano, a danno di Gela, ma l’inevitabile effetto di una stagione di incuria, negligenza, che non ha mai premiato il bene e l’interesse pubblico.