Nei giorni passati i vertici di Eni hanno celebrato i 70 anni di Eni.
La kermesse è avvenuta presso il contesto architettonico del Gazometro di Roma Ostiense, di proprietà Eni e dove l’azienda ha avviato il primo distretto di innovazione tecnologica dedicato alle nuove filiere energetiche, e aperto a collaborazioni di ricerca industriale applicata in sinergia con il mondo della ricerca e dell’università. Special guest il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in presenza di una delegazione di Ministri del Governo italiano.
«Dal 1953 a oggi – ha commentato il presidente del Consiglio di amministrazione di Eni, Giuseppe Zafarana – Eni ha accompagnato l’Italia attraverso le grandi trasformazioni economiche e sociali della nostra epoca, guidando da protagonista le fasi del cambiamento». A seguire, «in questi settant’anni di storia - ha aggiunto l'amministratore delegato, Claudio Descalzi – Eni è stata capace di evolvere costantemente, di innovare, di essere pioniere dei cambiamenti, di anticiparli.
Abbiamo accresciuto la capacità di integrarci nelle comunità dei Paesi in cui operiamo, lavorando per supportarne lo sviluppo, costruendo una relazione e una fiducia tali da essere considerati parte delle loro realtà: un grande valore nel lungo periodo, che supera quello del profitto nel breve. Per noi, infatti, lavorare in un Paese significa lasciare al mercato domestico buona parte dell’energia che produciamo, creare lavoro e diffondere l’accesso all’energia, promuovere sviluppo sanitario, imprenditoriale, agricolo, scolastico. Un approccio che ci consente di creare vere e proprie alleanze”.
Dichiarazioni che vanno certamente contestualizzate nell'attualità, ma che in ogni caso fanno riflettere e che comunque finiscono col destare più di una perplessità, se rapportate a quello che è risultato negli anni a venire il rapporto tra il territorio ed il petrolchimico a Gela, il cui insediamento di 63 anni fa è stato pure citato nella kermesse, con la figura di Enrico Mattei. Ed è iniziativa di questi giorni, portata avanti dallo storico locale, prof. Nuccio Mulè, la raccolta fondi per una ristampa del libro Industrializzazione senza sviluppo, Gela: una storia meridionale (1970), scritto dai sociologi Eyvind Hytten e Marco Marchioni. Una ristampa di cui ci fu un precedente nel 1990, a cura di Salvatore Parlagreco nell'ambito della collana "Cronache parlamentari" dell'Ars.
Un libro che ha ancora molto da dire perché le conclusioni e le criticità espresse dai due sociologi non furono gradite dal cane a sei zampe che li aveva reclutati. Conclusioni che il management vietò di pubblicare. Hytten e Marchionni dovettero bussare altrove per vedere pubblicato il loro studio, ma quando le copie arrivarono nelle librerie, furono acquistate in massa e tolte immediatamente dalla circolazione, impedendone di fatto un'eventuale diffusione a macchia d'olio. Per tanti è stata la beffa oltre al danno.
Una beffa a cui iniziative come quella di Parlagreco o Mulé in qualche modo avrebbero voluto e vorrebbero ancora riparare, così come quella della consigliere comunale Virginia Farruggia (M5s) con la mozione a sua firma tesa ad intitolare ai due sociologi una via di Macchitella, ex quartiere residenziale dell'allora Anic.
La vicenda di cui si tratta, soprattutto, è l’emblema di una difficoltà atavica, per non dire cronica di questa città, frutto di un approccio totalmente errato. Questa è una città dai mille problemi a cui non si riesce ad approntare le giuste soluzioni. Ma come si possono trovare le soluzioni più idonee ad un problema (una controversia, una vicenda, una questione, ecc.) se prima non lo si definisce correttamente? Solo una puntuale definizione, consente una coerente interpretazione, propedeutica ad una corretta soluzione. Insomma, non può esserci un “problem solving” efficace, senza essere preceduto da un “problem setting” puntuale.
Si può essere d’accordo o meno sulle conclusioni a cui pervengono, ma il lavoro condotto da Hytten e Marchioni, definisce la questione del rapporto tra il petrolchimico ed il territorio. E lo fa in maniera esaustiva e puntuale. Ecco perché è importante, specie per questa comunità.
E’ un lavoro che affronta gli aspetti politici, sindacali, relazionali, economici, sociali, strutturali, culturali, architettonici, urbanistici, di una realtà del profondo sud, in una fase storica ben precisa. Ciò consente un’interpretazione coerente, non di comodo. Nel fare di questo contributo sociologico, il simbolo di uno studio che punta solamente l’indice contro Eni, ovvero contro l’industrializzazione genericamente intesa, si corre seriamente il rischio di ridurre la questione ad una battaglia puramente ideologica. Facendo un torto agli stessi autori.
La circostanza che ha visto i due sociologi non precisarlo nel titolo, non deve infatti trarre in inganno. Ciò che prendono di mira Hytten e Marchioni, non è l’intervento industriale genericamente inteso, profuso in un dato territorio. Hytten e Marchioni mettono in discussione, confutano sul piano sociologico, minano le fondamenta che stavano alla base dell’interventismo dello Stato nei rapporti economici, in questo caso nell’industria pesante (raffineria, chimica, plastica, ecc,).
I due sociologi non accendono i riflettori sull’industrializzazione in sè, ma sull’industrializzazione di Stato. Non è all’industria privata a cui si chiede di coniugare al profitto, anche lo sviluppo del territorio in cui si opera. E’ all’industria di Stato a cui lo si chiede, perché solo in ragione di ciò si giustifica la sua azione nel mercato (riducendo la concorrenza a monopolio) ed il ruolo di un ente pubblico economico nella sfera privata. L’Anic non era più da decenni un’azienda privata (di Montecatini), ma un’azienda statale (controllata come l’Agip, dalla “holding” Eni di cui socio unico era lo Stato). Mattei non era più il piccolo imprenditore di un’azienda chimica, ma un dirigente pubblico, già parlamentare con la Dc, un uomo di Stato.
Ed è alla luce di ciò che diventava persino ovvio il perché ad un’impresa pubblica non sarebbero piaciute le conclusioni degli studi condotti dai due sociologi. Hytten e Marchioni hanno rilevato che lo Stato “imprenditore”, era intervenuto nell’ambito dell’industria pesante, con un impatto non indifferente sul territorio, adottando lo stesso approccio e politiche identiche, da nord a sud, in realtà diverse. Ecco perché il caso Gela diventa un paradigma meridionale.
In realtà meridionali in via di sviluppo come Gela, concludevano in estrema sintesi Hytten e Marchioni, lo Stato avrebbe dovuto anticipare il suo intervento industriale, implementando programmi di pre-industrializzazione, in assenza dei quali l’intervento statale industriale a Gela ha prodotto una crescita (quantitativa) in termini demografici e di ricchezza (confusa con il benessere), ma senza essere accompagnata da uno sviluppo (qualitativo) che avrebbe dovuto comportare una trasformazione evolutiva e positiva dei vari aggregati (politici, economici, sociali, ecc.). Il che sconfessava alla radice la “ratio” dell’interventismo statale.
Un libro che denuncia e preannuncia in termini sociologici ciò che qualche anno dopo sarebbe avvenuto sul piano della costituzione economica. Lo Stato imprenditore (fino a metà degli anni ‘70) che interveniva direttamente nell’economia, continua a farlo ma indirettamente, trasformandosi in uno Stato “pianificatore” (a partire dagli anni ’80), che sul piano del welfare (benessere assistenziale) diventa uno Stato “sociale”.
Continuare a guardare una major energetica in cui lo Stato è azionista di maggioranza relativa (non assoluta) che nomina l’amministratore delegato in virtù di una clausola pattizia, cosiddetta goldern share, come se fosse ancora l’Eni degli anni ‘60 e ‘70 dello scorso secolo, holding statale che controllava al 100% le azioni di imprese pubbliche Spa (Agip, Anic, ecc.) è una stortura grossolana. Ed è quell’Eni, cioè lo Stato, a cui questa città non ha mai chiesto, davvero, un minimo di risarcimento.