Capita frequentemente che mi venga richiesto un giudizio sulla città in cui sono nato, e vissuto per quasi metà della mia vita, da coloro che per svariati motivi hanno risieduto, seppur per pochi giorni, a Gela.
Ed ogni volta non so che cosa dire. Non, beninteso, perché sia a corto di argomenti e opinioni, ma perché il mio giudizio muta di volta in volta. Ciò che mi pare un elemento di indubbio rilievo, diviene irrilevante, e ciò che giudico di scarso interesse, diviene rappresentativo. Supero l’ostacolo usando un linguaggio talvolta criptico, talaltra disordinato e contraddittorio. Cerco di giustificare questa incapacità di raccontare la mia città con i cambiamenti, che essa subisce, con le dinamiche che si verificano in tempi assai rapidi e vengono attribuiti a elementi distorsivi di una realtà che non ha pari nel Mezzogiorno d’Italia.
I quesiti che mi vengono posti non pretendono sempre risposte sui massimi sistemi; talvolta sono imbarazzanti proprio per la loro semplicità. Faccio alcuni esempi.
Mi è stato chiesto perché mai sulla costa, proprio ai piedi della collina, il panorama del golfo offra la vista di ruderi, come il vecchio stabilimento balneare, La Conchiglia, o il pontile sbarcatoio, affondato nel tratto centrale, o il porto rifugio interrato. Chi si è servito di mezzi pubblici per venire a Gela, mi domanda per quale ragione la stazione ferroviaria, costruita tre decenni or sono ed in buone condizioni, sia stata di fatto dismessa e il piazzale d’ingresso adibito a stazione per i bus extraurbani. E i turisti, richiamati dalle aree archeologiche? Trovano tutto chiuso: museo, mura timoleontee, biblioteca comunale.
Le risposte lasciano inevasa la domanda principale: a che cosa addebitare lo stato dell’arte? La pubblica amministrazione, l’industria che ammaina bandiera, l’assenza di una imprenditoria diligente, l’indifferenza dei cittadini al degrado? O così fan tutte? O la burocrazia, le risorse insufficienti o il loro sperpero? Ho adottato un metodo che attribuisce a chi mi interroga, la responsabilità di partecipare all’elaborazione di uno scenario prossimo alla realtà. Invece che esprimere giudizi ed opinioni, racconto una parabola, che legge le dinamiche di una componente della comunità attraverso le vicende di un gruppo sociale, legato alla città ed insieme distante da essa.
Alcuni amici, seduti su comode poltrone di un salotto un po' bohemien, popolato di figure prevalentemente religiose alle pareti e di oggetti sacri in armadi e consolle, adempiono ad un rito introdotto in gioventù, ritrovarsi alle porte dell’estate, almeno una volta l’anno, a Gela, città d’origine. L’impegno viene onorato con alterna fortuna, le assenze suscitano irritazione. Siccome nessuno è esente da pause sospettose, le riprovazioni non vengono risparmiate ad alcuno.
Il salotto assomiglia a un incontro di alcolisti anonimi, in cui ognuno racconta il proprio vissuto recente, i giorni che precedono il “rito”, come se il resto – lavoro, affetti familiari, buone e cattive notizie dell’anno trascorso – non avesse diritto di essere raccontato.
Gela com’è e come potrebbe essere h perso appeal dopo avere occupato il centro della scena in molte “rimpatriate”, nelle quali far affluire ricordi pieni di rammarico, mantenere rancorosi silenzi, odii amorosi, sicché accanto ai peccati capitali, di cui la città d’origine deve rispondere, sulla fedina penale si assemblano, copiose, delusioni e débâcle personali. Gela sale sul banco degli imputati ed è costretta a difendersi, attraverso una minoranza risicata di salottieri rituali.
Nel tempo si sono formati due partiti; in uno si raccolgono i giudici più severi che svolgono con ammirevole coerenza il compito di banditori dei vizi e delle corruzioni; il secondo partito è composto dai guardiani della comunità, che s’impegnano allo stremo a dir male dei primi, colpevoli di nutrire astio, livore, risentimento esagerati
Le conversazioni, una volta animate al limite del litigio, con il tempo perdono l’originaria verve; il linguaggio degli amici si fa cauto, il partito dei falchi annacqua le opinioni e quello delle colombe si nutre di tolleranza.
Esprimere critiche è l’anticamera del tradimento, s’insedia la diffidenza. Gli argomenti sembrano scelti in modo da evitare di affondare il bisturi sulle piaghe, senza tuttavia scadere nella banalità. Della banalità si ha paura quanto della responsabilità di illustrare opinioni, esprimere giudizi, indicare soluzioni. In compenso, a beneficio del rito da preservare, si fa uso, talvolta smodato, del gossip, purché riguardi il mondo di fuori.
Gela resta estranea dalle conversazioni impegnative, ma il suo fantasma aleggia fra le parole e il gossip con disinvoltura, indossando l’abito della buona creanza e i fronzoli della citazione colta.
L’ira per l’ingiustizia, patita da Gela – i danni dell’industria, la sua dipartita ed altro – fa roca la voce, l’odio contro la bassezza dei tradimenti subiti stravolge il viso fra gli astanti. Coloro che apprestano il terreno alla gentilezza, invocano indulgenza verso se stessi e gli altri. La gentilezza pretende indulgenza e questa è un diritto; niente a che vedere con i tribunali, terreno delle attenuanti generiche, che presuppongono la colpa.
Il “salotto” si anima di niente; i solerti assertori dell’indulgenza, abbandonata la consuetudine al dileggio, offrono una motivazione alla loro conversione, aggiungendo stupore allo stupore.
La stupidità, ragionano, rende tutti meritevoli di indulgenza “plenaria”, a patto che la si accetti. Che è come essere incaprettati nel bagagliaio di un’automobile, eccepisce il più silenzioso dei salottieri. La sconcertante tesi, il diritto all’indulgenza ed il suo amaro risvolto, suggellerebbero l’appartenenza alla folta schiera degli stupidi, che non annovera, ci mancherebbe, alcuno dei presenti. La questione provoca uno stallo, non è facile accettare la stupidità in linea di principio, per potere disporre del diritto all’indulgenza.
L’intellighenzia salottiera è costretta a valutare lo sconcertante scambio, vissuto come una scelta sulla quale non si torna indietro. La bilancia pende inesorabilmente a favore del diritto all’assoluzione. Nessuno si sottrae al bisogno di spiegare la scelta. La percentuale degli stupidi è la stessa in qualunque gruppo di persone, premi Nobel compresi.
Non è il caso di cospargersi il capo di cenere. Il senza Dio per vocazione familiare, propone una scala della stupidità, in cima alla quale ubica l’Antico Testamento, che affida la creazione del mondo alla figura del Dio di Israele che invece di seguire il suo scopo, cioè la creazione, s’incarica di guidare l’esilio e l’esodo del piccolo Popolo Eletto, affrontando guerre fratricide e facendo strage di nemici nel nome di Dio.
L’afflato cosmico si prende ogni spazio, e il padrone di casa, che ha indossato il saio in età adolescenziale e costellato le pareti di figure religiose con dipinti di gran pregio, enuncia le leggi della stupidità dei valori laici, chiamando in causa il matematico Odifreddi, autore di un dizionario della stupidità, nel quale Marx e il socialismo adottano convergenze parallele. Da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo il proprio bisogno. Pensiero rivoluzionario marxiano e massima evangelica enunciata negli Atti degli Apostoli hanno la stessa radice.
Colui che ama il silenzio, fattosi silenziatore, riporta il salotto nel luogo lo accoglie, Gela, e invita a tornare con i piedi a terra, meditando sulla stupidità attraverso ciò che ne certifica l’esistenza.
Alfine di perorare la buona causa, accettarla per ottenere indulgenza, risuscita un banale episodio seppellito dagli eventi e sdoganato per la circostanza. Non abbiamo voluto, ricorda ai visi contriti, che il senatore di Gela fosse la protettrice degli animali, i quali di intelligenza non brillano? C’è niente di più stupido?”.
La risposta è unanime. “No, niente è più stupido, però…” Il però apre il ventaglio di astuti aneddoti. Il salotto torna quel che è sempre stato: una invenzione. E la massima di Forrest Gump si fa legge. “Stupido è, chi stupido fa”.