Vivo in queste ore momenti di forte emotività e rifletto sulle esperienze che la mia professione di Urbanista dello Stato, mi hanno portato a vivere.
Ho lavorato per due anni a Campobello di Mazara e vissuto lì un tempo di formazione ineguagliato e fondamentale. Ho capito la potenza della mafia quando assoggetta e sottomette un territorio. Ho capito la forza delle relazioni che fanno sì che l’energia del potere criminale produce l’esistenza di un sistema altrettanto forte, complice e servo.
Ho capito il senso culturale deplorevole di una moderna, bruttissima cittadina fortezza fatta di strade strette e prive di luce laddove il sole, quando superi il crinale di Santa Ninfa percorrendo l’autostrada verso Castelvetrano, ti abbaglia facendo brillare il Mediterraneo all’orizzonte. “Cosa nascondono?” ho sempre pensato percorrendo il paese, fino ad una settimana fa, per andare a comprare l’olio di Nocellara del Belice da un bravo contadino malfermo sulle gambe, conosciuto per caso dieci anni fa.
Hanno nascosto il capo di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, come fosse un cittadino qualunque, preso e lasciato, accudito e rispettato, salutato e riverito. Chiudendo il portoncino dimesso prima che uno sguardo più attento potesse fermarsi su quella fisionomia elegante e sfuggente. Un luogo violento quando ci sono entrata la prima volta e nell’ultima, per lo stato di abbandono e incompletezza che sembra caratterizzarlo, vuoto di persone, sede di uno dei campi per migranti irregolari più devastato e devastante del Paese. Cani randagi e solitudine. Ma anche bar moderni, illuminati e ricchissimi di ogni bontà immaginabile. Intorno, l’oscurità e il vuoto sociale.
Ottobre 2012, per due anni a misurarmi per conto dello Stato con l’amministrazione locale dell’urbanistica retta da logiche mafiose, accolte appena fuori dal paese da una bella grande scritta con una brillante vernice rossa su una vecchia cabina elettrica che diceva “W Matteo Messina Denaro”, tanto per non illuderci che le benvenute eravamo noi. Ci capitò subito di occuparci di un complesso turistico di 4000 posti letto, autorizzato con una concessione edilizia di una paginetta a Carmelo Patti patron della Valtur, poi arrestato per contiguità con MMD.
I lavori mai iniziati, eppure prorogati due volte (sempre con poche righe); l’area in cui avrebbe dovuto sorgere il complesso turistico, a ridosso di quella archeologica di Selinunte, era stata confiscata e affidata a tre amministratori individuati dal ministero dell’Economia e delle Finanze che si batterono per mantenere in vita quel progetto. Erano stati intercettati mafiosi di Campobello sodali del Patti, che conversavano della spartizione dei lavori di movimenti terra e sbancamento. Tutto era stato messo a posto e ai prezzolati di Roma questo bastava.
Vincemmo noi, con la legge. Il tanto lavoro regionale e comunale per autorizzare un’enormità senza muovere un respiro, non fu più un progetto. Mi ricordo il primo sguardo perplesso davanti alle carte dello strumento urbanistico vigente, quella enorme macchia nel bel mezzo del verde agricolo mentre lo schermo mandava nell’etere la notizia della rinuncia di Ratzinger a rimanere Papa Benedetto XVI, e le mie mani che rigiravano quel foglio delicato e inconsistente con il quale la macchia mediterranea sarebbe diventata Club Valtur.
E poi i circa 200 nulla osta della Soprintendenza di Trapani al mantenimento di case abusive costruite sulla battigia, con i quali si favoriva il muratore, il contadino, il poliziotto e il funzionario della prefettura, l’avvocato: tutti egualmente uniti dall’unico destino di essere titolari di un edificio costruito in riva al mare, con l’unica possibilità di ricevere il condono edilizio in presenza del riconoscimento della Soprintendenza. Che poi era arrivato, una marea nera che aveva bagnato tutti, e li aveva accontentati senza creare discriminazioni di ceto e appartenenza.
Così la mafia diventa forte, aprendo la porta della riconoscenza e dell’eguaglianza per il favore ricevuto. Così lei guadagna anche per sé il diritto a ricevere quel pezzo di carta, magari per fare guardare l’orizzonte a quattromila persone da un Villaggio Valtur in un sol colpo.
Ci restava l’attonita curiosità per un contesto povero di presenze fisiche e ricco di logge massoniche. Una cittadina di alcune migliaia di abitati ne contava allora una ventina. Incomprensibile e inconoscibile.
Ci capitavano situazioni surreali, la cui gestione amministrativa era stata trattata con inverosimile naturalezza: l’allora direttore dell’Istituto degli Impatti Antropici e Sostenibilità in Ambiente Marino (IAS) del Cnr era proprietario e titolare di una autorizzazione comunale relativa ad una casa corredata di appartamento termoisolato, totalmente interrato, costruito sotto un bel barbecue, in riva al mare. L’aveva voluta, ci disse dopo la scontata affermazione “lei non sa chi sono io”, per rifugiarsi lì sotto quando c’era vento e le palme e il prato all’inglese ululavano intorno.
E poi ancora un villaggio turistico fantasma composto di villette prospicienti il mare, tali da consentire l’approdo di motoscafi e la permanenza indisturbata e accompagnata da visite e traffici del boss di Castelvetrano mentre negli edifici destinati ad albergo si offriva ai malcapitati turisti acqua densa di coliformi fecali per la coesistenza nella stessa conduttura delle acque bianche e nere per l’approvvigionamento dell’insediamento.
Ci chiedemmo come 3000 posti letto potessero essere occupati senza un sito internet o Booking.com a vendere pacchetti vacanze: confiscato e affidato a un amministratore giudiziario successivamente noto alle cronache, che si guardò bene dal richiedere pareri e consulenze tecniche a chi aveva scoperchiato quel pozzo fetido.
E poi tecnici, menti di un sistema corrotto e inespugnabile, omertà e legami autorevoli con l’Università e la Regione. Tutto mentre gli anziani seduti sul breve Corso ti guardavano con occhi di ghiaccio: tra questi ho ricordato in queste ore proprio il viso dell’autista del boss arrestato ieri.
Ne abbiamo ritrovati tempo dopo, alcuni di questi professionisti, ingaggiati dal Comune di Corleone per occuparsi delle stesse tipologie di casi grazie ai quali li avevamo conosciuti da tutt’altra parte.
Segno che la geografia della mafia non sempre segue le logiche di quella dei luoghi. Intanto a Campobello, tra il 2013 e il 2014 ci capitavano eventi spiacevoli: al bar, davanti alla tazzina del caffè, si discuteva del “servizietto” che avrebbero voluto farci insieme alle altre fimmine commissarie: ammazzarci o soltanto farci male, molto male, prima o dopo essere entrate in paese. Così, a voce alta, appositamente per essere ascoltati, affermando davanti il Maresciallo dei Carabinieri che chiamato da noi ne chiedeva conto, di “parlare per parlare, quelle ci vogliono togliere le case e controllano il Comune…”.
Poi è arrivata a metà del 2014, pochi mesi prima della fine del Commissariamento Straordinario, la pistola lanciata con forza alle mie spalle dentro il cortile dell’ufficio tecnico. Una scacciacani con matricola abrasa, proiettili in canna e capace di sparare, che si infranse sulla parete di fronte a me con un tonfo dall’eco di un’esplosione. Non ricordo di avere provato incredulità e nemmeno, incoscientemente, paura. Fredda rabbia si, respiro lento e il pensiero immediato alla libertà che avrei perso se avessi lasciato spazio alla paura.
Subito, ci volle solo uno sguardo tra me e Maria e un confronto ragionato in macchina su come riferirne alle nostre famiglie. Emerse con sollievo ma anche naturalmente una grande determinazione. Dal giorno dopo io, Maria, Anna e Annamaria, con l’appoggio convinto della Commissione Straordinaria, abbiamo fatto con serenità quello che avremmo voluto e soprattutto dovuto, firmando decine di provvedimenti di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale delle case sul mare di Tre Fontane.
Campobello non aprì le imposte delle poche aperture sulla strada, sentivamo un diffuso disprezzo feroce e freddo accompagnarci alle spalle, la sensazione per noi sfuggente della presenza (evocata nei nostri scambi e assolutamente non commentata dal nostro contesto locale) di MMD. Ci sentivamo accompagnate dal trascorrere del tempo e soprattutto, alla fine della nostra presenza lì, da chi guardava un orologio che scandiva con accurata pazienza il conto alla rovescia dei due anni dello Stato al Municipio.
Noi eravamo a Campobello di Mazara per profondo senso etico e dovere morale, non trovo altre espressioni che mi spieghino l’ardire di quel coraggio inconsapevole. Siamo state accompagnate dall’appello lanciato in nostro sostegno e dalla solidarietà raccolta da parte di centinaia e centinaia di persone in giro per l’Italia, e dalla sensazione di sicurezza e fiducia mi ha accompagnato fino ad oggi. Resta in questo momento un bisogno di memoria e il senso dei miei giorni a Campobello di Mazara, comunque a rompere le scatole a MMD.