C’era una volta, anzi c’è ancora, “la femmina nuda” al centro di Piazza Umberto I a Gela. Nessuna la degna più di uno sguardo, come se non ci fosse, anzi: come non ci fosse mai stata.
Eppure ha vissuto una magica stagione, nella quale non si parlava d’altro in città. Per alcuni una “svergognata” esibizione d’impudicizia, per altri un po' di cosmesi per una comunità che sembrava tutta vestita a lutto: scialli neri per tutta la vita in ricordo del caro estinto. Altri tempi.
Se provi a chiedere a qualcuno che frequenta la piazza giusto di passaggio, per farsi gli affari suoi, ti guardano come fossi un alieno. Ma che vuole sapere questo qui, sembrano dire. E che siamo, su “scherzi a parte”? Se incalzi, quello ti volta le spalle e buona sera. Allora volgi lo sguardo alla femmina nuda, giusto per familiarizzarti con i ricordi di gioventù. E si avvicina magari un tizio che porta con sé una borsa da avvocato e, pensando che sei un turista, si accosta gentilmente, e sussurra: “Cerere, o Demetra, come la chiamavano i greci. La dea della fertilità.” Non fai in tempo a girarti dalla sua parte e ringraziare, che a passi rapidi si è già allontanato. Altro segno dei tempi, vanno tutti di fretta. E pensare che nessuno lasciava la piazza per ore ed ore…
La mitologia greca e gli studi classici ti aiutano ad apprezzare la informazione dell’avvocato frettoloso, e ridare alla femmina nuda, che porta con sé una spiga, una identità. Le reminiscenze dei banchi di scuola si animano di storie che nulla hanno a spartire con gli studi del Liceo Classico Eschilo, dove ho deposto per anni le parti di me che contano di più, la testa ed il sedere, assai importante quest’ultimo per andare avanti nella vita. Piuttosto che il culto di Demetra, veneratissima nella Gela greca, è una vicenda vecchia di circa mezzo secolo, che s’incarica di allontanarmi dall’epoca d’oro della Gela antica. E chi se ne ricordava più dei lazzi e le spiritosaggini che circolavano all’indomani della deposizione di Cerere in Piazza?
Quando re Umberto I subì la migrazione coatta, e il severo busto del monarca venne sostituito con la “femmina nuda”, si accesero interminabili discussioni sull’opportunità della scelta e sul declassamento di uno dei padri della patria, per due ordini di motivi: l’uno, legato ai personaggi storici ed al loro Pantheon, e l’altro al comune senso del pudore, che faceva fatica ad uscire dalla guardiola. E siccome allora non era ancora arrivata la “cancel culture” che oggi imbratta le statue di chi ha fatto la storia – nel bene o nel male – o le distrugge con lo scopo di gettare discredito sui simboli controversi, le discussioni non uscirono dai confini della città.
Poi, di punto in bianco, Cerere desnuda divenne oggetto di una animosa disputa fra gli amministratori, colpevoli dell’accoglienza offerta alla “femmina nuda” e i parrocchiani della Matrice, il tempio cristiano più importante della città. Scesero in campo, disponendosi sul fronte, in prima linea, i parroci della Cattedrale, che si sentirono chiamati in causa da quella inopportuna, e financo blasfema, statua discinta al centro della piazza, per giunta in una posizione che sembrava fissare il sagrato della chiesa, per coglierne gli umori più privati.
Quando il portone grande è chiuso, ammise il dissenso, la questione non si pone, ma quando la chiesa apre la porta al sole nelle giornate d’afa estive, il sacerdote che celebra la messa, guarda davanti a sé, si ritrova al cospetto della femmina nuda, indecentemente discinta, coperta da un timido lenzuolino che invece di sminuirne il carattere seduttivo, sembra accentuarlo. Pare di vederlo il povero celebrante che consacra nel sacrificio della messa il simulacro dell’Eucarestia… Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli, che ho molto peccato…
E a quel punto gli occhi puntano su Cerere. La mitologia greca può competere con le pulsioni della carne, che è debole, debolissima… Fra lo scherzo e il faceto si ammise, anche negli ambienti estranei alle parrocchie, che il problema c’era, ed era inutile negarlo.
Non so quanto durò la storia, ma so che essa fu raccontata perfino dalle firme più celebri della stampa nazionale, alla ricerca del “colore” locale per rendere più gradevole la lettura dei giornali in un tempo grigio ancora carico dell’atmosfera ombrosa del dopoguerra. La disputa suscitava curiosità; si animò grazie alla contrarietà dei cultori gelesi di storia patria, cui non viene ingiustamente concesso di chiamarsi storici, perché il titolo spetta agli accademici. La intellighentia nostalgica sacrificò ai costumi morigerati l’impero romano e le sue divinità impudiche e non. Saro Battaglia, studioso di storia antica, diede alle stampe un opuscolo dedicato alla dea della fertilità, Cerere.
I reporter, da parte loro, ficcarono il naso nel gossip più malsano scoprendo che all’imbrunire attorno alla femmina nuda si assiepavano migliaia di gelesi, a crocchi attorno alla femmina nuda. Fredda quanto lo sa essere il marmo, Cerere esercitava una innnegabile carica seduttiva.
In realtà piazza Umberto era il luogo di parcheggio dei “iurnatari”, i lavoratori assunti dai caporali per la campagna. Ma non ci fu verso di farglielo capire ai nordisti in cerca di folklore. A quel tempo i caporali non erano dei brutti ceffi. A dar ragione ai giornalisti spuntarono i numeri, Gela aveva un primato, era il comune più prolifico d’Europa. Gela faceva carrettate di figli specie nelle fasce povere della campagna. Anche questa eccezionale natalità aveva una spiegazione plausibile, che non aveva niente a che fare con la femmina nuda, ma con gli assegni familiari. Fare un figlio e mantenerlo permetteva di incrementare il bottino degli assegni familiari. A conti fatti, fra dare ed avere, a quanto pare, ci si guadagnava. Come fosse possibile, ancora oggi me lo chiedo, ma così stavano le cose, e non altrimenti.
Questi argomenti non interessavano i reporter, le cui regole di ingaggio erano di divertire i figli del boom economico, residenti nel triangolo industriale. Le colpe della “femmina nuda” non vennero perdonate.
Nei “pezzi” di colore, peraltro, si trovava di tutto. Su una rivista di cui non ricordo il nome, lessi che a Gela poteva capitare d’incontrare qualcuno con la copia dell’Observer sotto il braccio. Mah! La contesa sulla femmina nuda ebbe fine, come tutte le cose di questo mondo, pace fatta: Cerere sarebbe rimasta in Piazza Umberto I, ma avrebbe cambiato posizione. I sacerdoti avrebbero visto solo di fianco la scostumata, e non più frontalmente, con seni vigorosi e pudenda appena coperte.
Ci si sentì orfani di quei presunti sguardi impudichi degli uomini di chiesa. Non è che succedessero tante cose a Gela, finita la contesa. La cronaca nera languiva, in attesa della “buona” stagione; il petrolio non era ancora arrivato, e le mura timoleontee erano ancora sepolte dalle dune di sabbia di contrada Caposoprano. In questo deserto di novità, l’evento che gonfiò d’orgoglio i gelesi, in mancanza d’altro, fu il semaforo installato all’incrocio fra il Corso Vittorio Emanuele e Via Bresmes. Semaforo e “puntineri”, cioè vigile urbano. Mi sono chiesto a lungo perché fosse chiamato puntineri, e solo ora, ho scoperto che “punto” sta per luogo, e “neri” corrisponde all’area, descritta con tale colore sulla mappa cittadina, assegnata alla sorveglianza del puntineri ai fini della corretta “pulitezza”.
Il semaforo fu accolto con tutti gli onori. Veniva osservato, quanto e più, della femmina nuda; insieme al semaforo, era oggetto di curiosità il puntineri cui era affidata l’osservanza delle regole: sempre lo stesso, giorno dopo giorno. Forse era l’attitudine del puntineri ad avere aiutato la scelta, perché pareva che fosse stato concepito proprio per il servizio che gli era stato assegnato. Aveva preso sul serio il suo lavoro, non ci sono dubbi.
E dicevano anche che parlasse le lingue straniere, la qualcosa dava ancora più lustro al semaforo. E’ pur vero che l’incrocio era attraversato da una vettura ogni dieci minuti, tanto per dire, e che di turisti non se ne vedeva nemmeno l’ombra, ma il fatto che il servizio del puntineri prevedesse la presenza delle automobili e degli ospiti era pure segno inequivocabile che Gela cominciava ad attrezzarsi ad un futuro metropolitano.
La diceria sulle abilità linguistiche del puntineri fu presto smentita, perché le parole intellegibili avevano una caratteristica, l’unica: vestivano lo spagnolo, grazie all’aggiunta abbondante di più “esse”. Ogni parola una “esse” finale. L’espressione più frequene era: “circolares, levares di mezzos”, ed era destinata a chi, incantato dal semaforo, si soffermava a osservare il prodigio multicolore, affollando gli angoli dell’incrocio.
Naturalmente, i ragazzini come me, si ingegnavano per ascoltare lo “spagnolo” del puntineri, ormai sgamato, così ci scappava la risata e una fuga dal puntineri, che però non osava abbandonare la sua garitta virtuale (non c’era, ma era come se ci fosse).
Ciò che successe dopo i giorni di gloria del semaforo e del suo guardiano, non dovrebbe indurci al sorriso, ma così è fatto il mondo. Delle disgrazie altrui, talvolta, si sorride. A chi non è capitato di sbellicarsi dalle risate quando qualcuno finisce a terra, magari a causa di uno stupido scherzo? Il puntineri si ammalò di una malattia per molti sconosciuta: si irrigidiva d’improvviso e restava immobile a lungo, come le guardie di Buckingham Palace. o le guardie svizzere di sua Santità, il Papa.
Nessuno sospettò una malattia. Il nostro puntineri stava da sempre dritto e compunto, a “comandare” il pulsante del suo semaforo, e la sua malattia – credo fosse una forma di epilessia – non fu per molto tempo ignorata. Questa storia durò un bel po’ di tempo, fino a quando Vincenzo Interlici, il guardiano di Gela antica, non ruppe l’incantesimo, sognando il teatro. Altro che semaforo, Gela aveva natali degni di gloria imperitura. Il resto non contava niente, o quasi.