La realizzazione del termovalorizzatore è divenuta una questione nazionale, tanto da determinare delle spaccature nella maggioranza di governo per il dissenso espresso dal M5Stelle che della maggioranza fa parte e in parlamento mantiene la maggioranza relativa di parlamentari.
La questione, entrata a far parte del dibattito politico locale, si sposta inevitabilmente altrove, a meno che – l’annuncio del sindaco di Roma di realizzare un termovalorizzatore al servizio della capitale – la Sicilia e Gela non riescano a smarcarsi, per un verso o l’altro, e determinare le condizioni per fare una scelta, a prescindere delle divisioni politiche nazionali.
Per una serie di deprecabili coincidenze, la gita a Palermo del sindaco di Gela, Lucio Greco, e di alcuni assessori, per incontrare il presidente dell’Assemblea regionale, Miccichè, si è inserita nel quadro di una crisi politica, che vede i due vertici delle istituzioni siciliane, la Regione e l’Assemblea, divisi da inconciliabili propositi e da una profonda diversità di vedute, su questioni di fondo: chi deve gestire le sorti dell’isola nel prossimo quinquennio.
Di ciò abbiamo invero dato conto, tralasciando tuttavia, gli sviluppi della situazione, che hanno aggravato le tensioni politiche regionali. A Gianfranco Miccichè è stato addebitato, in una recente intervista a La Stampa di Torino, un giudizio, laconico ma affatto lusinghiero sul presidente regionale Musumeci, definito inopinatamente “un fascista catanese”, che nella vulgata siciliana verrebbe percepito come un doppio insulto. Si può sopportare un fascista, se innocuo e fuori dal suo contesto, ma è insopportabile un fascista catanese, essendo l’origine del fascista un moltiplicatore del primo insulto.
Le lagnanze, esposte da Musumeci, nelle sedi opportune (Roma, Arcore?), ed il suo atteggiamento composto, misurato e, tutto sommato, elegante, hanno permesso al presunto autore dell’insulto, Miccichè, di esprimere il suo rammarico per l’incidente, al quale si sente peraltro estraneo, e grazie a ciò di apprendere che il colpevole è l’intervistatore. Miccichè non si sarebbe sognato da dare del fascista catanese al governatore. Potrebbe averlo pensato? Non lo sapremo mai.
La smentita ha evitato il protrarsi di un duello, virtuale, a mani nude fra i due presidenti, componenti della stessa famiglia politica. Se la smentita abbia o meno convinto dell’innocenza di Miccichè è altra cosa. Ma è inutile soffermarsi su una questione di dettaglio, appare davvero rimarchevole che Miccichè abbia giurato di non avere mai detto quel che gli è stato addebitato, senza fare cenno alla sua personale credenza.
E’ noto a coloro che conoscono da vicino il presidente dell’Ars che difficilmente egli si lascia andare a espressioni di insofferenza così estreme, preferendo il silenzio iniziatico di chi rappresenta una funzione super partes nel parlamento siciliano. Ci sono invero precedenti, ma sono addebitabili al carattere sanguigno ed istintivo, che è una qualità e non un difetto, essendo prova inconfutabile di una perfetta adesione fra il linguaggio scritto e quello pensato.
Bisogna, perciò, credere all’atto di contrizione manifestato senza se e senza ma, e giustificare il presidente della Regione, che a ben ragione, in assenza delle informazioni sul qui prò quò, si è sentito offeso e, sotto certi aspetti, umiliato per via di quell’appellativo fuorviante che gli è stato affibbiato, cioè la origine catanese, peraltro solo parzialmente vera, dato che in realtà Musumeci è nato a Militello (Val di Catania, ormai in disuso).
Suppongo che Musumeci avrebbe sopportato di essere apostrofato come fascista per via della sua storica appartenenza alla destra, una volta estrema, ma quell’epiteto “catanese”, ispirato da una demenziale atavica sottovalutazione della virtù etnee, avrebbe mandato in bestia chiunque.
La solidarietà non è arrivata, copiosa, alla “vittima” del fraintendimento del giornalista intervistatore, chiudendo con le scuse formali e le precisazioni puntuali l’episodio. Essa viene concessa nei casi di minacce anonime, insulti non riparati, cattiverie ingenerose ecc. una casistica che lascia fuori l’incomprensione di un giornalista. Musumeci avrebbe preferito restare forse vittima dell’insulto? Il quesito è malizioso e fuori luogo; certo, sarebbe stato più utile che Miccichè avesse ripristinato lo stato dell’arte che lo vedeva d’amore e d’accordo con lui, cancellando il veto alla riedizione del governo Musumeci-bis. Non si può avere tutto dalla vita.
In questa temperie è venuto a trovarsi il sindaco di Gela, Lucio Greco. Del tutto estraneo agli accadimenti, si è intrattenuto cordialmente con il presidente dell’Ars, cui ha posto la questione che gli sta a cuore, e cioè la decisione del governatore di assegnare a Gela il termovalorizzatore al servizio della Sicilia occidentale, nonostante Gela faccia parte dell’area centromeridionale e abbia sofferto di immissioni affatto salubri nell’atmosfera.
Nonostante si trovasse al centro di una animosa disputa, della quale non si è sentito affatto responsabile, Miccichè ha dedicato tempo al sindaco di Gela e, per quanto lo riguardava, ha detto a chiare note, che il sindaco ha avuto ben ragione di lamentarsi per non essere stato interpellato del “dono” fatto alla città di Gela.
Nel comunicato stampa del Comune, all’indomani dell’incontro, non si fa alcun cenno del tempo dedicato al sindaco e dello stato d’animo del presidente dell’Assemblea, anzi – indirettamente – la nota riferisce di un ascolto attento e benevolo, e quindi di un sostegno al sindaco ingiustamente disinformato.
Lucio Greco, invero, è bene farne menzione, ha creduto opportuno incontrare anche la “controparte”, l’ing. Giacomo Rispoli della società semi-privata dell’Eni, che ha dato delle informazioni sulla natura dell’impianto in stand by, precisando che non si tratta di un termovalorizzatore. E nemmeno di un inceneritore, a quanto pare. E allora di che si tratta? Questo lo riveleranno i tecnici, e qualcuno l’ha già fatto, in via informale.
Se così fosse il sindaco di Gela avrebbe sofferto di un duplice affronto: di non essere stato messo a parte del progetto, e di essere stato, indirettamente, informato malamente, per il fatto che le notizie a lui giunte hanno definito l’impianto un termovalorizzatore. Così stando le cose, la esigenza immediatamente più avvertita in sede locale, sarebbe quella di dare un nome, quanto più vicino alla realtà, all’impianto, che dovrebbe essere realizzato a Gela.
Insomma, il problema vero, è il nome da affibbiare all’impianto, in maniera da evitare le barricate burocratiche, che impedirebbero all’Eni di farsi gli affari suoi, ancora una volta, a Gela, senza dovere patteggiare con i padroni di casa, diventati inaspettatamente “sensibili” alle questioni ambientali.
Nei giorni a venire, ci avverte un addetto ai lavori, che vuole restare anonimo (accetterebbe comunque una foto con la mascherina), che si prenderà in considerazione il “pregresso”, un termine che è stato spiegato dal delatore in modo ambiguo. Un aggiornamento sul dare ed avere, dunque.
Gela accetta quell’impianto, qualunque sia il suo nome, meglio se non si chiami inceneritore o termovalorizzatore, se l’Eni s’impegna, da subito, a mettere le cose a posto, che significa ripristinare l’area dismessa della petrolchimica. Questa condizione, secondo l’anonimo informatore, non godrebbe del favore dell’Eni, che la considera economicamente gravosa. Illazioni. La parte pubblica non potrebbe, spiega l’anonimo, che rispettare la legge in vigore, che obbliga al ripristino ambientale, ma gli azionisti privati dell’Eni a partecipazione statale si sentirebbero alleggeriti del portafogli, e per certi versi umiliati, diventando gli unici fessi che in Italia rispettano la legge sul ripristino delle aree dismesse dall’industria.
La questione è ingarbugliata, come si vede. Miccichè non è stato aggiornato sugli sviluppi, dopo il faccia a faccia del sindaco con il manager dell’Eni, quindi non è stato messo nelle condizioni di intervenire e seguire la vicenda con l’oculatezza promessa. Il sindaco deve vedersela con il governatore, ancora in bilico sulla candidatura “unica” del centrodestra a causa della pervicace volontà del presidente dell’Assemblea di esiliarlo.
Se Giorgia Meloni non farà il diavolo a quattro, Musumeci deve riproporre la permanenza a Palazzo d’Orleans con il vessillo del suo movimento (o partito), che si chiama “Sarà Bellissima”, cui si fa riferimento con insistenza per spiegare l’affidamento all’Eni del trattamento della monnezza, l’abbattimento delle discariche e l’annoso ritiro dei rifiuti solidi urbani dai marciapiedi. Problema vasto, avrebbe detto Charles De Gaulle, dopo scambiato uno sguardo nostalgico d’intesa con Musumeci.
Comunque vada, sarà… bellissimo. Parola di Musumeci.