La toponomastica cittadina è, o meglio, dovrebbe essere, la carta d’identità di una comunità; i nomi e gli episodi che essa evoca, dovrebbero costituire un rosario laico.
Piazze, corsi, vie, cortili ricordano pezzi di storia; insieme costruiscono la biblioteca della memoria, grazie alla quale conserviamo la cultura, gli eventi, le vicende che danno ad una città la dignità che essa merita.
Se Gela ha intitolato il corso a Salvatore Aldisio, l’uomo politico, il parlamentare, l’accorto legislatore, il munifico dispensatore di opere pubbliche, lo statista che diede alla Sicilia l’autonomia speciale, vuol dire che la città ha un grosso debito di riconoscenza da pagare.
La piazza principale di Gela, intitolata a Re Umberto I, vuole ricordare il risorgimento, l’unità d’Italia, attraverso uno dei padri della patria. Quando i cittadini gelesi s’immergono nel dedalo di strade che fronteggia la Chiesa di San Giacomo, e leggono i nomi dell’età dell’oro di Gela antica - uomini che contribuirono alla straordinaria evoluzione della civiltà greca – vuol dire che gli amministratori gelesi, a suo tempo, vollero, meritoriamente, dare riguardo alla memoria di quell’epoca irripetibile.
Queste osservazioni mi vengono sollecitate dal parere espresso dalla commissione provinciale sulla proposta di dieci nuovi nomi per altrettante strade cittadine. E’ stato bocciato il nome di un cittadino gelese, cui sarebbe stata destinata una strada, Gaetano Di Bartolo Milana. Chi è costui, si chiederanno tanti, ed hanno ragione di chiederselo. Gaetano Di Bartolo Milana, nato a Gela nel 1902, è morto nella sua città in dicembre del 1984, ed è perciò un illustre sconosciuto per le nuove generazioni.
Gaetano Di Bartolo Milana è stato la bandiera dell’anarchia nazionale pacifista e democratica, ed ha pagato duramente per le sue idee, con il carcere, il confino, l’emarginazione sociale. E’ stato arrestato per la prima volta nel 2019, giovanissimo, l’iniziazione avvenne in occasione di una manifestazione di braccianti braccianti agricoli terranovese trasformatasi in sommossa popolare quando alcuni militi a guardia del Municipio spararono sulla folla provocando morti e feriti.
Da allora la sua vita cambiò, il credo libertario, una missione: scrivendo articoli, organizzando la militanza anarchica, promuovendo incontri. Prese contatti con alcuni socialisti di Catania e Vittoria, collaborò con giornali italiani e stranieri. Fondò il Gruppo anarcocomunista Pietro Gori che fu bandito per le idee sovversive, e un periodico, La fiaccola anarchica che esordì col programma politico di natura comunista, anarchico e rivoluzionario.
La bandiera nera dell’anarchia terrorizzava l’Europa, l’anarchismo democratico e pacifista era pericoloso quanto i terroristi che avevano attentato alla vita del Re d’Italia, Umberto I di Savoia, della regina Sissi d’Austria. Nell’immaginario collettivo gli anarchici erano regicidi, autori di efferati crimini, terroristi, gente insomma da sorvegliare e tenere ai margini. Gaetano Di Bartolo Milana era altra cosa. Un anarchico, ci ricordano i filosofi del pensiero politico «è una persona che non vuole padroni e non ha alcuna voglia né interesse ad essere il padrone di qualcuno. Per un anarchico essere il padrone di qualcuno è un'idea ripugnante.
Ne consegue che l'anarchico non può avere nessun interesse a convincere qualcuno con la forza». Milana «non credette alla rivoluzione armata», perché «essa non conduce alla libertà», anzi è la strada d’accesso ai totalitarismi. Nel 1922, quando germinava la cultura fascista, fondò il periodico la Fiaccola anarchica, e scelse come pseudonimo, per firmare i suoi articoli, il nome di Nunzio Tempesta. Non fu una bella idea.
Già da tempo la sua vita era divenuta difficile. Lo era, beninteso, per chiunque volesse respirare l’aria della libertà, ma per lui divenne un inferno. Con l’avvento del regime, infatti, veniva prelevato in casa ogni volta che a Gela arrivava un pezzo grosso del Fascio.
L’anarchismo era il più insidioso nemico del regime: l’anarchico romagnolo Mario Buda, immigrato in America da una decina d’anni e seguace del gruppo anarchico a cui appartenevano anche Sacco e Vanzetti, era stato incriminato negli Usa per una serie di attentati terroristici. Sacco e Vanzetti, innocenti, subirono la condanna a morte, Gli anarchici erano divisi in molte correnti; Milana, insieme ad altri, si prodigò per unificarle dando vita al Partito Anarchico Italiano. L’iniziativa, avversata da autorevoli esponenti dell’Unione Anarchica Italiana, si concluse con un insuccesso.
Gaetano Di Bartolo Milana non dismesse la sua militanza. La corrispondenza clandestina del movimento anarchico italiano era indirizzata nel suo domicilio gelese, inviava articoli ovunque. Su Milana vennero redatti alcuni rapporti di polizia («… continua a professare idee sovversive ed è ritenuto elemento pericolosissimo. E’ stata intensificata la vigilanza nei suoi riguardi»).
Dal 1927 Milana scelse una maggiore cautela, lavorando sotto copertura. Il suo nome, infatti, non compariva più sulla stampa clandestina anarchica contraria al regime, ma solo perché usava lo pseudonimo di Nunzio Tempesta. La fece franca per sette anni, venne scoperto, arrestato e mandato al confine prima nell’isola di Ponza e poi all’isola di Tremiti. Cinque lunghi anni in cui frequentò Sandro Pertini, Adolfo Pacciardi, Umberto Terracini, Girolamo Li Causi, Giorgio Amendola, Pietro Secchia, Mauro Scoccimarro. Nemmeno a Ponza, tuttavia, rinunciò alla sua missione. In occasione del 1° Maggio promosse la celebrazione della giornata del lavoro, che gli costò una condanna a dieci mesi di prigione, che scontò nel carcere di Foggia.
Liberato nel 1940 ritornò a Gela. Era vigilato notte e giorno dalla milizia fascista locale, e spaventava anche i vecchi amici a causa dei suoi trascorsi. A Ponza aveva imparato l’arte dell’orafo, ed a Gela, s’ingegnò, aggiustando orologi. Dopo lo sbarco degli Alleati a Gela, venne delegato a rappresentare la sua città nel Comitato di Liberazione Nazionale.
Guidò a Gela “Lega contadina”, e nel 1946, accettò con molta riluttanza di candidarsi nella lista dei Psi, come indipendente. Eletto consigliere, denunziò diversi illeciti degli amministratori comunali del tempo. “Brucerò ogni cosa e con la mia morte morirà tutto di me – confidò agli amici –. E mantenne la parola. Non lasciò nessun documento, nessun giornale, nessun opuscolo, segno della sua militanza. Per scelta”. Salvò solo la foto della sua figlia (scomparsa in tenera età) e una poesia a lei dedicata.
Ebbene, tutto questo l’ho saputo soltanto ora, sfogliando il libro di Nuccio Mulè e Renzo Guglielmino dedicato ai personaggi gelesi dimenticati, e di questo non sono affatto fiero, perché, molto giovane a militante nelle file del Psi, avevo avuto la ventura di incontrarlo e conoscerlo. Non narrò mai le sue vicissitudini, né si atteggiò a vittima del fascismo. Era l’orologiaio acculturato per tutti, nient’altro. Gli artigiani allora erano la categoria più acculturata.
La memoria mi lascia il ricordo di un uomo che amava ascoltare gli altri, schivo, interessato alle cose del mondo. Era come se ci osservasse da un altro pianeta. Non è che si sentisse migliore, aveva imparato, a sue spese, che non ci sarebbe stato mai spazio per le sue idee. Il pregiudizio che gli aveva rovinato la vita, colpiva stavolta lui stesso, persuadendolo a rintanarsi nella dimora del suo pensiero.
Si dice che gli anni Ottanta siano come i jeans: mai di tendenza, ma sempre alla moda. Gli spiriti libertari, non fanno tendenza né moda. E forse c’è un fondo di verità in questo: l’anarchia rimanda al mondo di Candido, narrato da Voltaire. Esiste nel cuore e nella mente di uomini semplici, ingenui e onesti fino all’estremo.
La bocciatura della Commissione di toponomastica, moralmente, replica il pregiudizio che ha mandato in carcere Valpreda, innocente, finito in carcere come autore della strage di Piazza Fontana a Milano, e di Sacco e Vanzetti, mandati a morte, per le loro idee. Ma chi ha fatto mai differenza fra anarchici terroristi e uomini come Gaetano Di Bartolo Milana?
Qualche domanda, la proposta del comune di Gela per l’intitolazione di dieci nuove strade cittadine, la pone. Anzi, più d’una. Essa contiene un breve curriculum che, senza volerlo, rispetto alle altre, ne fa una vicenda a parte: «Gaetano Di Bartolo Milana di idee anarchiche e socialiste….ritenuto sovversivo e pericoloso per il regime, ebbe diverse restrizioni della sua libertà fisica…».
Le idee politiche dei nove candidati, degni di avere il loro nome in una strada, non sono ricordate. Eppure abbracciano l’intero arco politico, dall’estrema destra all’estrema sinistra. La vicenda lascia l’amaro in bocca. Gaetano Di Bartolo Milana è uno che ci credeva, la sua vita racconta una storia cristallina, di lealtà, fedeltà ed onesta alle proprie idee. La carta d’identità di Gela ne avrebbe tratto beneficio.
Ed invece, questo è solo il mio parere, sembra impoverirsi, parcheggiata nelle piccole glorie locali, incapace di offrire alcun modello di vita e di comportamento alle nuove generazioni. Meglio ricordare Shakespeare, fa figo e regala una immagine extramuraria, piuttosto che una mezza cartuccia, che fa arrossire per il plateale provincialismo, se non addirittura, a pensar male, per una sorta di distribuzione delle memorie sulla base del ghéne: la stirpe, la famiglia, il casato, che nella civiltà greca fu cancellata dalla democrazia.