In aprile del 1966 il ministro degli Esteri dell’Urss, Andrej A. Gromyko, venne a Gela, accolto dai dignitari del governo italiano e dal vertice dell’Eni al completo.
Fu la ratifica formale di un rapporto commerciale bilaterale fra l’Italia e l’Urss, che ebbe una lunga incubazione prima di entrare in una fase operativa. Al centro delle relazioni fra i due Paesi c’era la fornitura di petrolio all’Italia.
Tre furono i contratti commerciali che legarono ad un cordone ombelicale l’Italia alla Russia, e tutti rivolti a settori vitali per l’economia dei due paesi. Nel 1960 il presidente della Repubblica italiana, Gronchi, si recò a Mosca, e l’anno successivo, fu la volta del capo del governo, allora Amintore Fanfani. L’entante cordiale, in tempo di cortina di ferro, era una eresia. Gli Stati Uniti ebbero a lamentarsene, e a sospettare il peggio, cioè una fuga, lenta ma inarrestabile, dell’Italia dall’area “benedetta” dai soldi americani con il piano Marshall. Vi siete presi i soldi e fate affari nel campo nemico, fu l’accusa che circolava sottobanco.
Ma a preoccuparsene seriamente furono i padroni del petrolio e del gas, le multinazionali, trascinate in pool position dalla vittoria dei paesi democratici contro l’asse nazifascista nel conflitto mondiale. Era un tempo di forti tensioni e di grandi timori a causa della corsa all’armamento nucleare ed alla rigida divisione del mondo fra paesi capitalisti e paesi dell’orbita sovietica. I comunismi nazionali erano guardati di malocchio, rappresentavano il “nemico” in casa. E si stava da una parte o dall’altra. Eppure in Italia soffiò un vento diverso.
A parte la parentesi drammatica della crisi cubana al tempo di John Kennedy, soffiava in Italia il vento del nord, propenso alla tolleranza e alla real-politique. Il Vaticano, con Papa Giovanni XXIII, il “papa buono”, aveva aperto al comunismo sovietico, accogliendo uomini importanti di Mosca a Roma, in Italia l’ecumenismo e la bonomia del siciliano Giorgio La Pira, vicino a Fanfani, aveva raggiunto il Vietnam, e placato gli animi più sospettosi, fino a creare una condizione di favore nell’intera Dc. Le piazze italiane, sotto le bandiere del pacifismo antiamericano, ribollivano di sdegno per la “sporca guerra” degli Usa in Vietnam (“Buttiamo a mare le basi americane/ cessiamo di fare da spalle agli assassini”).
L’accordo sull’importazione del petrolio, e successivamente, per la realizzazione di un gasdotto per fornire metano all’Italia, fece da battistrada alle operazioni commerciali che videro in prima fila il “salotto buono” dell’industria italiana, la Fiat di Valletta. Una fabbrica di automobili fu inaugurata a Togliattigrad nel 1966 proprio nell’anno in cui Gromyko era a Roma e poi a Gela. I padrini di questa svolta filorussa furono tanti, ma il più brillante e convinto sostenitore del “cartelllo Italia-Urss fu Enrico Mattei, che all’inizio degli anni Sessanta pianificò una politica energetica che avrebbe dato, nelle sue intenzioni, all’Italia, una autonomia in un settore strategico, come appunto il petrolio e il gas.
Mattei non era innamorato dei Soviet, operava a largo raggio, dal Medio Oriente all’Africa, fino al Nord Europa. Il nemico, a suo avviso, era il cartello delle grandi compagnie petrolifere anglo-americane, che dettavano legge sui mercati. Ruppe il cartello delle royalties accordandosi con lo Scià di Persia e altri paesi produttori di petrolio, favorì l’indipendenza degli algerini contro i francesi. Abbattè la cortina di ferro, con il favore del governo, fece dono al Pci di una politica estera esterna alla Nato. Assassinati i Kennedy, fatto fuori Mattei per la misteriosa esplosione del suo aereo nel cielo di Bescapè, restarono in vita i patti stipulati: Togliattigrad e il petrolio russo posero una pietra miliare nella storia italo-russa.
Al di là dei singoli episodi, il decennio 1958/1968 è caratterizzato da una politica estera italiana “creativa” e “originale”, come ebbero a definirla gli ambienti della diplomazia romana. Accanto alla strategia economica, l’Italia rispettava quella parte politica del Paese rappresentata dal Pci. Ogni tassello al posto giusto. Niente sarebbe stato possibile, tuttavia, se non avessero concorso al risultato finale, una serie di circostanze favorevoli: le aperture del Vaticano, della Dc di Fanfani e La Pira, il centrosinistra di Nenni, l’attivismo di Enrico Mattei, il Pci felice e contento, le piazze pacifiste antiamericane, il business della grande industria privata, l’interesse politico della nomenclatura sovietica di uscire da una drammatica crisi interna con la cacciata di Crushev, lo smarrimento postkennediano negli Usa.
Nessuno può dirsi, oggi, fuori dal gentlemen’s agreement che all’inizio degli anni sessanta pose le basi di quella che oggi viene definita la dipendenza energetica italiana dalla Russia. Di questi anni cruciali di incontrovertibile rilevanza per il futuro dei rapporti fra Italia e Urss, oggi, però nessuno parla né scrive.
Quando il passato è molto presente, e su di esso si fa silenzio, è legittimo farsi qualche domanda; anzi, più d’una. L’Italia sembra essersi svegliata da un lungo sonno, a causa dei carri armati di Mosca impegnati in Ucraina. Il risveglio improvviso sembra avere trovato il Paese impreparato e colto alla sprovvista, ed ha costretto a fare un po' di conti dall’oggi al domani; e si è così scoperto che l’Italia finanzia, di fatto, la guerra russa contro l’Ucraina, pagando ogni giorno milioni di euro il costosissimo gas russo. Mentre finanzia la guerra, senza volerlo, è impegnata a fornire aiuti di ogni tipo, comprese le armi “di difesa”. L’Italia si trova in un cul de sac, insomma, o alla “palermitana” “incaprettata”: così più sanziona l’aggressore, più il cappio del costo del gas ci stringe al collo.
Quella visita di Gromyko a Gela non è certo il peccato mortale da espiare, anche perché fin dalle prime trivellazioni nella piana di Gela, la profondità oltre che la qualità del petrolio gelese, richiese la presenza di tecnici russi, provvisti di una notevole esperienza e perizia, sulla piana di Gela e nelle prime introspezioni marittime.
A quel tempo in Sicilia c’erano anche i petrolieri aderenti al “cartello” delle “Sette sorelle”; si erano già insediate le grandi compagnie petrolifere nella vicina Ragusa con la British Petroleum, rappresentata da un rampollo dell’aristocrazia italiana Baby Pignatelli, e tutto lasciava credere che quel mondo di affari, a parte l’entità del petrolio siciliano, non sarebbe mai stato destabilizzato.
Le cose sono andate diversamente. E’ una storia con la quale dobbiamo fare i conti. Gli anni sessanta spiegano poco o niente, i fatti sono quelli che sono. Piuttosto com’è che dopo il 2014, quando la Russia di Putin si è annessa una fetta del territorio ucraino, nessuno si è accorto che lo zar non era affidabile, aveva pochi scrupoli, e lo dimostrava ovunque, sia in Europa quanto in Medio Oriente e in Africa. La dipendenza dal gas russo negli ultimi otto anni non è affatto diminuita, anzi è aumentata. Peggio dell’Italia ha fatto solo la Germania, che aveva perfino pianificato il “raddoppio” della fornitura con un nuovo gasdotto, il Norhern Stream.
Non nascondo la mia insofferenza verso quanti – economisti, politici, editorialisti, maître à pènser in servizio permanente nei talk show - discettano scandalizzati e indignati della dipendenza italiana alla Russia, puntando il dito contro i governanti, colpevoli di sottostare al “giogo” russo e all’insulso legame con la Russia putiniana, quasi che il patto con il diavolo fosse stato stipulato qualche giorno fa, alla chetichella, mentre è vecchio di sessanta anni ed è stato benedetto da tutti.
La consuetudine all’oblio, quando conviene, preserva da molti mali, e talvolta è perfino cosa buona e giusta, ma l’ignoranza in materia energetica ci fa scendere in campo armati di arco e frecce contro i “guerrieri” dell’economia mondiale. Mi riferisco, ovviamente, ai cinesi, e non allo Zar di tutte le (ex) Russie, che crede di conquistare la sua fetta di mondo con i carri armati e l’eccidio di un popolo fiero e civile, e pagherà quindi, questione di tempo, la sua stolida supponenza.
Torno al punto. L’entente cordiale fra Italia e la Russia, che muove i primi passi con le trivelle “antiamericane” di Gela, si chiamava Real-politique, politica realistica, deideologizzata, e poteva contare su un fronte largo, al quale non era certo estranea l’opposizione di sinistra (non ostante i carri armati russi in Ungheria) e di destra (Mattei diceva di salire anche su questo taxi quando serviva).
I protagonisti di quella storia non furono gli operai gelesi ed i tecnici russi, provenienti dal freddo siberiano, per scavare a profondità mai raggiunte, ma uomini temprati agli intrighi ed alle amicizie brevi, ma appartenenti ad un altro mondo, come Chruscev e Fanfani, Moro e Kossygin, Togliatti e Gronchi, Segni e Nenni, Saragat e Podgornyj.
E’ stupefacente che la storia energetica del Paese sia stata archiviata e che a farla riemergere, in ambito molto ristretto, sia il Corriere di Gela un cronista di paese che ha avuto in sorte di essere testimone di un evento, in definitiva marginale: il suggello formale di Gromyko all’alleanza energetica fra la Russia sovietica e l’Italia.