Paolo La Rosa, unico comunista elevato al soglio di primo cittadino di Gela, fece una lunga gavetta, nel sindacato e nel partito.
Dal balcone o sul palco arringava i braccianti, in fabbrica gli operai, in consiglio comunale si rivolgeva al popolo minuto che, si affollava dietro le transenne per assistere allo spettacolo della democrazia nell’esercizio delle sue funzioni. La sua oratoria era trascinante, il core-business era il “piatto di fagioli”, con il quale i padroni, avari e furbi, cercavano di accontentare il popolo. Aveva una voce roboante, che assecondava con piccoli gesti e poteva modularsi a seconda del contesto. Nell’aula consiliare invero non diede il meglio di sé, ma era pur sempre di una spanna più in alto dei “compagni”, che sgomitavano.
Il Pci, a Gela, aveva una storia importante, che alcuni raccontavano, forse a torto, come una saga fra tre famiglie, tutte con un pedegree di tutto rispetto; figli d’arte, bandiera rossa della prima ora, ed un talento naturale a rappresentare il proletariato nelle piazze e nei salotti buoni, che in verità erano ben pochi a Gela.
Siccome mi ero fatto la fama, non usurpata, di “unitario”, cioè favorevole all’unità della sinistra, e quindi di persona affidabile in campo comunista, mi capitava di partecipare anche ad assemblee di sezioni comuniste, durante le quali ascoltavo, imparavo e riflettevo, in silenzio. Questo apprendistato fuori dalle mura amiche mi permise di cogliere significative consuetudini comuni con le assemblee dei socialisti gelesi.
Gli interventi dei braccianti, contadini e mezzadri, se ce n’erano, cominciavano in entrambi i fronti con toni moderati, andante con brio, si direbbe in musica; e si concludevano con un crescendo durante il quale le mozioni di affetto iniziali venivano dimenticate e vilipese con sorprendente nonchalance e si mirava al cuore del nemico, che nel Pci era la “setta papale” e nel Psi, la classe borghese. E siccome di rappresentanti della setta papale non c’era proprio nessuno nel Pci, gli oratori non subivano alcun dissenso; nel Psi, invece, i borghesi c’erano eccome, erano professionisti, generalmente figli di commercianti. Ricconi, nemmeno l’ombra.
Eccadde che della gettonatissima “setta papale” si impadronisse un popolano di lungo corso, piccolo di statura, scuro di carnagione, tutto nervi e falce e martello. La malefica setta papale occupava un orizzonte ampio, che partiva dalle parrocchie, armate di fede e di amor patrio, e finiva nella folta schiera dei frequentatori domenicali della chiesa, inevitabilmente manipolati dai sermoni della setta papale.
L’oratoria del proletariato socialista seguiva canoni sostanzialmente simili; solo che il mirino era puntato verso l’interno del partito, gli infiltrati, cioè la classe borghese al servizio del padronato, contrariamento a quanto avveniva nelle assemblee comuniste. L’oratore socialista confessava di non essere all’altezza di coloro che, nel partito, avevano il “coccio della lettera”, cioè un titolo di studio, le parole giuste, la proprietà di linguaggio. Un’ammissione di umiltà esagerata, che riceveva consenso e credito, nel bene e nel male. Man mano che l’eloquio diventava più fluido e meno timoroso, una volta conquistata la platea, l’umiltà scompariva, e si sparava in casa con bombe a grappolo contro la classe borghese, che ascoltava impassibile.
Per fortuna nel Psi c’erano gli artigiani, barbieri in primis, (uno di questi, il compianto Ciccio Città) che leggevano due quotidiani al giorno ed intrattenevano compagni nei loro saloni, con discorsi sulla democrazia e sulla fine della Rivoluzione d’Ottobre, perciò la requisitoria non arruolava l’intera assemblea alla rivoluzione proletaria. Gli artigiani erano l’anello di congiunzione fra il proletariato corrivo e ostile, e i borghesi, considerati la quinta colonna del padrone.
C’era più massimalismo nel Psi che nel Pci, come avrebbe testimoniato la scissione a sinistra con la nascita del Psiup all’indomani dell’arrivo dei carri armati in Ungheria. Gli artigiani socialisti ebbero un altro merito: rappresentare la matrice comune della sinistra gelese: il Pci a Gela nacque, infatti, nelle sezioni socialiste. Quando cominciò a organizzarsi, potè contare sui compagni socialisti, coi quali si sarebbe alleato nel Fronte Popolare, vincendo le prime elezioni regionali.
Non è un dettaglio, la storia della sinistra in periferia andrebbe riscritta di sana pianta. Sono in pochi, infatti, a sapere che per i socialisti la nascita del Pci non rappresentò un pericolo per la sua egemonia (la storia del cavallo di Troia non c’entra). Le prime elezioni del dopoguerra fecero registrare un vantaggio socialista. All’indomani arrivarono direttive da Roma, e oltre Roma: e i comunisti, grazie alla primazia guadagnata in montagna nelle organizzazioni partigiane, poterono disporre di mezzi e risorse ingenti. Dall’Urss arrivarono aiuti concreti ad entrambi i partiti della sinistra (al Psdi dagli Usa), ma fu il Pci ad assicurarsi i rifornimenti che servivano.
Non è possibile spiegare nulla, ho letto da qualche parte, se si cerca una causa per ogni effetto, perché ogni effetto è determinato da una molteplicità di cause, e ognuna di esse ha una motivazione al suo interno. E’ come una tromba d’aria nella quale arrivano venti e correnti diverse, che non possono districarsi fra loro.
Il depositario gelese del brand “la setta papale” cambiò casacca, affascinato dai parrocchiani della setta papale. Gli umili braccianti sprovvisti di “coccio della lettera” nel Psi facero carriera delegando ai figli del popolo con titolo di studio e parlantina sciolta il compito di rappresentarli nei governi del paese, dal comune di residenza alla provincia, regione e così via. Con il centrosinistra gli infiltrati scomparvero dai discorsi delle sezioni. E non si registrarono fughe in campo avverso da parte degli infiltrati: c’era pane e companatico per tutti.
La democrazia era “custodita” dalle tessere nel Psi, dal centralismo democratico nel Pci; i padroni delle tessere poterono esercitare il diritto di decidere in tutta tranquillità. La classe dirigente comunista che succedette al nemico della setta papale, fu composta da uomini che s’erano fatte le ossa. Professionisti e funzionari: Paolo La Rosa, Totò Marino, Nené Carfi.
La Rosa veniva dalla vicina Mazzarino, come Totò Marino, e s’era subito fatto notare per le sue maniere spicce e il fervore di classe. Ricordo, e spero di non ricordare male, che si affezionasse a certe espressioni, come “tiri mancini”. E fu proprio la reiterazione dell’espressione che face nascere un divertente equivoco in consiglio comunale. Era il tempo in cui Giacomo Mancini, ministro dei Lavori pubblici, subiva violenti attacchi, specie dalla destra missina, e i socialisti erano additati al pubblico ludibrio dai compagni come traditori della classe operaia a causa dell’alleanza con la Dc nel centrosinistra.
Quel “tiri mancini” pronunciato da Paolo Ra Rosa a chiusura del suo discorso in consiglio, giunse sugli scanni dei consiglieri socialisti come un colpo di lupara e chi, fra i socialisti, non aveva seguito con attenzione l’oratore comunista, reagì d’istinto: il consigliere Carmelo Cassarino si alzò in piedi, raggiunse il lungo tavolo della presidenza, si guardò attorno, incerto sul da farsi, poi aggirò il tavolo, e mi sussurrò in gran segreto: “Mancini, Mancini, intervieni tu o intervengo io?”.
Pur sussurrando il quesito all’orecchio, le sue parole furono ascoltate dall’assessore democristiano Nené Scerra, che sedeva accanto a me. Nenè era giovane di ingegno fino, gran narratore di barzellette nostrane, l’unico, che possedesse a menadito il vocabolario in vernacolo dell’anatomia del corpo umano. Un esempio? l’ossu pizziddru e ‘a pala a’ spaddra. Ci facevamo grandi risate, affrontare temi seriosi con lui era impossibile.
Prima che riuscissi a spiegare l’equivoco nel quale il “compagno” Cassarino, ex carabiniere e poi avvocato, era incorso, Nené subì una incontenibile crisi di riso, che gli provocò un movimento scomposto e inaspettato. Finì, insomma, sotto la sedia, con la conseguenza che Carmelo Cassarino tornò sui suoi passi rapidamente, come se si sentisse in colpa di qualcosa che non sapeva, e Paolo La Rosa credette di essere lui l’oggetto della derisione. Siccome Paolo era un pezzo di pane, non ne fece un problema. Il consigliere socialista, nemmeno. Tornato al suo posto, si consultò con qualcuno, seppe e restò sulle sue. Mancini non c’entrava niente. Meglio così.
Mi accorgo di farvi viaggiare in un mondo lontano, del quale non possedete alcuna brochure con le nozioni essenziali. Forse è meglio così. Talvolta bastano due pennellate per rendere il dipinto piacevole a vedersi: albero di bellu viriri, dice la voce del popolo, a proposito di ciò che appare gradevole e non fa frutti.
E il mondo cattolico di Gela? L’arcipelago democristiano non può essere raccontato in poche righe. Mi torna in mente un episodio, poco significativo, ma di qualche interesse per marcare il confine fra la balena bianca e la bandiera rossa. Ebbe come protagonista Cesare Leopardi, avvocato e principe del foro, capogruppo consiliare della Democrazia Cristiana. Un’autorità, insomma. Parlava con il linguaggio forense e non disdegnava le citazioni in latino, che allora producevano un grande effetto.
Cesare Leopardi stava agli antipodi di Paolo La Rosa, comiziante e declamatore delle buone ragioni del popolo. Aveva carisma ed un piglio sicuro, le cause della politica erano affrontate con toni pacati e senza espressioni ad effetto. Mi redarguì in latino. Presiedevo la seduta del consiglio comunale, come vicesindaco uscente, ed avevo l’onore e l’onere di scrutinare il risultato dell’elezione del sindaco, che spettava ai consiglieri comunali.
La Democrazia Cristiana aveva il solito problema dei franchi tiratori, non c’era mai un candidato-consigliere che andasse bene a tutti, ed il momento giusto per impallinare il designato era proprio il voto segreto. Per impedire che il candidato sindaco venisse bruciato dai franchi tiratori, il partito si attrezzava alla meglio, attraverso metodi di riconoscimento del voto. Così, accanto al nome talvolta veniva ricordata la professione, il cognome precedeva il nome, o ne restava privo.
Un espediente utile per privare dell’arma i presunti franchi tiratori. Prevalse in me l’inderogabile volontà di smascherare la drittata, senza tener conto che fra socialisti e democristiani era stato raggiunto un accordo per la formazione della nuova amministrazione. Giudicai perciò inammissibili i voti che contenevano segni di riconoscimento e tutto ciò che non avesse a che fare con il nome e cognome del candidato da votare.
Quando il numero dei voti inammissibili divenne alto, Cesare Leopardi si alzò furente dal suo scranno ed urlò dall’ultimo banco nel quale era seduto: “Pacta sunt servanda”, i patti vanno rispettati. Seguì un lungo silenzio, giusto il tempo di decriptare l’enigma. Bravo, fece qualcuno senza porsi il problema della traduzione, altri si limitarono a rumoreggiare. Non ne feci una questione, diedi a Cesare (Leopardi), quel che era di Cesare. Aveva ragione e torto insieme, come capita spesso nella vita. Era nel giusto aspettarsi dal partito alleato un trattamento di favore, era nel torto ritenere che il mio operato fosse fuori dalle regole.
Il clima dei consigli comunali a Gela si surriscaldava ogni volta che il sindaco in carica, designato dalla DC, era costretto a dimettersi. Instabilità, ingovernabilità, franchi tiratori e …tiri mancini.
L’Assemblea regionale siciliana adottò una nuova legge, precedendo il resto del Paese, prevedendo l’elezione diretta, nell’intento di dare ai comuni una guida “tranquilla” per la durata della legislatura. Sapete bene com’è andata. L’instabilità è rimasta, talvolta è un rodeo, a causa di un contenzioso costante fra consiglio comunale da una parte e sindaco con la sua giunta dall’altra. Non basta l’ingegneria istituzionale per ridare equilibrio e serenità ai consessi democratici.
Alle correnti, alle spinte eterogenee, si sono sostituite le lobby, ed alle lobby un esasperato individualismo: ognuno per sé. I partiti ci sono ancora, come l’aranciata San Pellegrino, ma è come se non ci fossero.