Nel 2019 nasce il comitato “S.o.s. Vittorio Emanuele III”, per la salvaguardia dei servizi sanitario-ospedalieri gelesi.
Sul perché nasce e sulle ragioni delle iniziative intraprese, lo chiediamo alla coordinatrice Luciana Carfì (nella foto): «il disagio che per primo sollecitò la nascita del comitato furono le lamentele di alcuni familiari relative alle gravi carenze del centro di salute mentale e le mille difficoltà, affrontate spesso in solitudine, a cui andavano incontro per poter avere un servizio adeguato per i propri cari. Seguirono una serie di incontri tra diversi cittadini e maturammo la consapevolezza di costituire spontaneamente un comitato per affrontare più complessivamente la questione sanitaria ed ospedaliera a Gela.
Nel tempo abbiamo promosso incontri e sollecitato l’Asp a dare risposte autentiche ai bisogni emergenti, ma per tutta risposta abbiamo assistito a un continuo depotenziamento dei reparti, del personale medico, infermieristico e degli operatori sanitari. La chiusura della terapia intensiva, con il relativo trasferimento di pazienti in gravi condizioni a Caltanissetta, è stato solo l’episodio più clamoroso anche per l’epilogo che poi si è registrato, con la morte di 6 pazienti.
Con l’esposto sottoscritto da migliaia di cittadini, abbiamo chiesto alla magistratura di fare chiarezza sulla vicenda nel pieno rispetto dei nostri diritti di cittadinanza. Per non parlare, poi, dei viaggi continui verso altri ospedali per garantire le prestazioni agli assistiti a causa della mancanza di servizi nel nostro ospedale, con il rischio di avere gravi conseguenze, come quella della settimana scorsa, contraddistinta dal tragico incidente che ha distrutto la vita di tre persone».
A questo punto un po’ tutti si chiedono fin dove il comitato è disposo a spingersi: «noi vogliamo che questo ospedale, che appartiene alla sesta città della Sicilia, abbia i servizi adeguati per un comprensorio dove vive poco meno della metà della popolazione provinciale, con cittadini che non vengano trattati come merce.
Per questo andremo avanti fino a quando non arriveranno risposte vere, chiare e saremo in grado di spiegare alla città che questa battaglia ha dato i suoi frutti. La città è con noi e lo sono soprattutto i giovani, cioè il futuro. Ci auguriamo di avere al nostro fianco anche chi, fino ad oggi, ha preferito giocare a nascondino. Il nostro obiettivo è avere medici, reparti, sale operatorie in grado di curare i pazienti del comprensorio. Ci auguriamo valga lo stesso per le istituzioni cittadine, per i deputati e per i consiglieri comunali».
Attivista, da una vita nell'associazionismo e nell'Arci, in particolare. Dal 1995 in poi, lei ha collaborato con la compianta Rita Borsellino, fino a co-fondare il movimento “Un’Altra Storia”: «Rita è stata una donna straordinaria, che ha saputo trasformare il dolore per l’omicidio del fratello Paolo, in impegno civile contro le mafie e contro ogni forma di illegalità.
Lo ha fatto con semplicità, non risparmiandosi le fatiche e le difficoltà che l’impegno sociale comporta, mettendosi a disposizione di quanti, quotidianamente, sono impegnati a costruire veri processi di cambiamento. Diceva sempre che quel giorno, il 19 luglio del 1992, giorno della strage di via D’Amelio, era nata una seconda volta, ripromettendosi che quelle persone, quei siciliani, quei palermitani, quel movimento di cittadini che si erano ribellati alla mafia con le lenzuola bianche ai balconi, scendendo in piazza contro quella violenza bestiale, sarebbero stati i suoi compagni di viaggio negli anni successivi.
Da lì nacque la “Carovana Antimafia”, promossa da Arci Sicilia nel 1994, nata per andare incontro alla gente, nelle periferie delle grandi città, nei piccoli paesi di provincia, in territori dove la mafia condizionava la vita delle comunità, come a Gela dove la guerra tra cosche aveva fatto centinaia di vittime. Il Circolo Arci “Le Nuvole”, a Gela nasce proprio con l’arrivo della prima Carovana Antimafia.
L’anno dopo nacque Libera, con la Borsellino vice presidente, al fianco di Don Luigi Ciotti. Fu una stagione straordinaria di impegno sociale e civile, che puntò soprattutto sui giovani, sui bambini perché era evidente che la lotta alla mafia era soprattutto una battaglia culturale, un percorso educativo da condurre insieme alle scuole, alle famiglie, alle comunità.
L’esperienza della ludoteca a Gela è stato un passaggio importante perché quel luogo non era solo lo spazio dei giochi, era uno spazio di protagonismo dei più piccoli, un luogo dove rivendicare il diritto al gioco per i bambini, in una città dove i bambini non erano soggetti portatori di diritti. Negli anni, con l’Arci, a Gela abbiamo continuato a costruire esperienze importanti di cittadinanza, di lotta all’esclusione sociale ed attivato spazi di socialità che hanno prodotto risultati importanti che sono stati copiati altrove. In tutto questo percorso Rita Borsellino è sempre stata una presenza costante, a ricordarci con le sue parole semplici, quanto era importante ciò che stavamo facendo».
Nel 2006, nel candidarsi alla presidenza della Regione, la Borsellino volle fortemente Luciana Carfì nel listino regionale: «la sua candidatura alla Presidenza della Regione, nel 2006, fu un evento quasi naturale, spinto dalla voglia di riscatto per la Sicilia. Per me è stato un onore essere chiamata a far parte del suo listino regionale, far parte di quel movimento che credeva di potere scrivere “un’altra storia” per la nostra isola.
Purtroppo, nonostante oltre un milione di voti raccolti (risultato mai più raggiunto da nessun candidato di centro-sinistra), l’esito finale non fu favorevole ed il dopo lo conosciamo tutti con il candidato vincente costretto a dimettersi perché condannato per favoreggiamento alla mafia. Resta il rammarico di una grande occasione persa, di “un’altra storia” che non è stato possibile scrivere fino in fondo per la Sicilia».
Con l’aggravante dell’emergere di una “antimafia di facciata”, utile a nascondere altro: «l’antimafia è pratica quotidiana, è sporcarsi le mani per rivendicare giustizia sociale, è costruire comunità coese, è garantire diritti di cittadinanza a tutti, soprattutto a chi è più in difficoltà. Tutto il resto non è antimafia. L’antimafia non si rivendica, la si pratica in ogni azione concreta, è trasversale ad ogni settore, ad ogni azione amministrativa.
L’antimafia non può essere rivendicata per dare privilegi a qualcuno o per giustificare azioni poco trasparenti. Quella non è antimafia. Affidare dei beni confiscati in gestione a qualcuno che in cambio mi garantisce dei vantaggi personali non è antimafia.
In questo senso forse anche i media dovrebbero fare la loro parte, perché non è costruendo il fenomeno per fare i titoli sui giornali che si favorisce la lotta alla mafia, anzi. Perché invece non dare spazio a chi nei quartieri di periferia costruisce percorsi di inclusione, sostenere esperienze di aggregazione e di volontariato che offrono opportunità educative a tanti ragazzi. L’antimafia la si costruisce giorno per giorno, con la coerenza e con l’esempio.
Torno sull’esperienza della ludoteca realizzata dall’Arci a Gela nella seconda metà degli anni novanta. Quello era uno spazio in cui di riconosceva ai bambini il diritto al gioco, si dava valore alle persone. Per noi era una esperienza di antimafia sociale, che infatti nel corso degli anni è stata colpita più volte dalla criminalità perché provava ad offrire ai ragazzi, ai bambini delle opportunità educative diverse da quelle che spesso incontravano nei loro quartieri e nelle strade della città.
In quegli anni l’associazionismo a Gela, insieme alle scuole ed anche alle Istituzioni, aveva costruito dei percorsi educativi importanti contro la mafia con risultati importanti. Nel corso degli anni molto di quel lavoro è stato smantellato, non sostenuto da chi avrebbe dovuto invece alimentarlo con le conseguenze dal punto di vista dell’ordine pubblico che sono evidenti, con il fenomeno delle devianze tra i minori che esplodono periodicamente. Il lavoro sociale si costruisce nel tempo, produce risultati non immediati, non porta consenso elettorale a differenza del bisogno e del degrado che sono invece facilmente utilizzabili».
Sulla condizione femminile c’è ancora molto da fare, a partire dalla politica, così come in altri campi. Le quote rosa hanno permesso una maggiore presenza femminile ma la maggiore quantità non si è tradotta necessariamente in maggiore qualità: «le quote rosa possono essere uno strumento utile se favoriscono il reale protagonismo delle donne.
E’ indubbio che in Italia le donne sono penalizzate in politica ma anche nel mondo del lavoro, nel sistema economico e in tanti altri settori. Introdurre dei criteri oggettivi che garantiscano delle maggiori opportunità alle donne, che sono la maggioranza della popolazione, è certamente utile in una società fortemente maschilista come la nostra.
Tuttavia, se tale criterio viene messo nelle mani delle élite dei partiti o di altri settori socio-economici (in gran parte maschili) ed utilizzato come metodo di cooptazione esattamente con l’obiettivo opposto a quello per cui nasce, allora diventa inutile se non controproducente. Oggi, l'essere mamma, moglie ed il volere avere un ruolo attivo nel lavoro o nella società, sono aspetti resi ancora difficili da coniugare, dall’assenza di servizi ed attività di supporto, che abbiano lo scopo essenziale di rendere più agevole l'organizzazione della vita quotidiana di una donna».