Scrivere di Salvatore Aldisio(nella foto sotto), in particolare, è come compiere un viaggio nelle vicende della storia contemporanea, nata nel secolo scorso.
Un viaggio lungo, più lungo del tempo che esso compie, perché sono tanti gli eventi cruciali e le idee che lo percorrono, e tutti di tale rilevanza da dettare le regole del tempo presente. In più il fascismo rappresenta una cesura, perché il regime costrinse Aldisio al silenzio per più di vent’anni.
Mi è più facile ricordare Salvatore Aldisio che scriverne. Ho avuto, infatti, in sorte di incontrarlo, di ascoltarlo, di ricevere indirette informazioni sulla sua attività grazie alla mia precoce passione per il mestiere di cronista e la lunga permanenza all’Assemblea regionale siciliana.
Affidarsi alla memoria regala sensazioni, emozioni, come dire, di prima mano, ma rappresenta anche un rischio: la memoria, talvolta, ci tradisce, s’inventa la vita, figuriamoci quando pretende di conservare i “dettagli”, o spiare il passato, così come è stato espresso dalle generazioni che ci hanno precedute.
Vale la pena, comunque, di correrlo questo rischio: anche quando la memoria tradisce, lo fa in buona fede, interroga la coscienza, il giudizio che ci siamo fatti attraversa un lungo esercizio esperenziale, che né i libri di storia né la cronaca potrebbero concederci.
Aldisio non è un personaggio gelese: ebbe la storia nelle sue mani, si assunse responsabilità che avrebbero cambiato la nostra vita. Basti ricordare che fondò il partito di massa più importante del dopoguerra, la Democrazia Cristiana, insieme a Luigi Sturzo, Giuseppe Alessi e, in una seconda fase del concepimento, Alcide De Gasperi; strappò la sua terra, la Sicilia, al separatismo, indirizzando l’antica volontà siciliana di autogovernarsi verso l’autonomia speciale, consegnando all’Assemblea regionale siciliana, nel 1947, lo statuto federale più moderno e apprezzato in Europa;
partecipò da protagonista alla ricostruzione del Paese, come commissario straordinario della Sicilia, e titolare di vari ministeri, dagli Interni ai Lavori pubblici. Fu un legislatore di rara competenza e uomo politico brillante, due qualità che difficilmente si ritrovano insieme in altre figure politiche ed istituzionali del dopoguerra. Eppure, tutto questo non è bastato per farlo uscire da una sorta di limbo, in cui abita da sempre, sia in vita e che dopo la morte. Una terra di mezzo che lambisce il mito di padre della patria e l’oblio, perfino nella sua stessa terra d’origine, Gela e la Sicilia.
La leggenda, che contribuisce a creare il mito di Aldisio, riguarda l’operazione bellica decisiva per le sorti del secondo conflitto mondiale, insieme allo sbarco in Normandia. Nel dopoguerra, infatti, circolò la voce che Salvatore Aldisio ed il Principe Pignatelli d’Aragona Cortes, abbiano patteggiato “l’immunità” di Gela in occasione dello sbarco degli Alleati nel golfo. Sia Aldisio quanto Pignatelli avevano un conto da saldare con il fascismo.
Aldisio fu costretto a lasciare “l’aula sorda e grigia”, come definì Benito Mussolini la Camera dei deputati, dove era stato eletto dai siciliani in giovane età. Il Principe Pignatelli intratteneva, a quanto pare, buone relazioni con gli inglesi, i quali, com’è noto, avrebbero svolto un lavoro certosino per dare nientemeno che a Umberto, luogotenente del Regno, la corona di Sicilia, sotto la protezione dei sudditi di Sua Maestà.
Solo leggenda? Forse, ma se tali sono di leggenda si tratta, partecipò alla elaborazione di una storia non scritta del dopoguerra. Resta il fatto che toccò ai marines americani, e non alle bocche di fuoco delle navi al largo, entrare in Sicilia, rinunciando a fare danni devastanti. Sarebbe bastato che da una delle mille imbarcazioni che affollarono il golfo, partisse il fuoco dei cannoni “alzo zero” perché Gela fosse ridotta in briciole e conoscesse l’ennesima distruzione, dopo quelle subite nel terzo secolo avanti Cristo.
La voce del gentlemen’s agreement non è stata mai confermata né smentita: il “miracolo” della sopravvivenza di Gela, ove venisse rivelato il santo – anzi, i santi – che lo hanno procurato, marchierebbe paradossalmente come “traditori” della patria coloro con gli Alleati, avendo collaborato al buon esito dello sbarco, il cui nome in codice è “Operazione Husky”.
Tutto questo era presente a me stesso, quando, ventenne, ottenni da Aldisio, una intervista, che si svolse nella sua residenza mitica, la villetta della Palma, sul tratto – allora finale – di Via Ettore Romagnoli, a Gela. Cercate d’immaginare l’istante in cui dietro l’albero di carrubo si materializzò il mito, Salvatore Aldisio, protetto dall’ombra dell’albero. Fu come se la storia mi stesse venendo incontro.
Rassegnai la mia identità a fatica, Aldisio allungò la mano, mentre gliela stringevo mi avvidi che girava la faccia all’albero, trascurando me. Magari era un vezzo, un gesto consueto, ma in me suscitò la strana sensazione che stesse sopportando l’intervista “a quel ragazzino”, sottoponendo a dura prova la sua pazienza. Con quel gesto d’insofferenza, insomma, dovetti misurarmi nel corso dell’intervista.
Il quesito, l’unico che ricordo, riguardava Silvio Milazzo, già presidente della Regione, e la sua idea di istituire la Calta-Gela, una nuova provincia che mettesse insieme le due città vicine, allora divise da dalle tifoserie locali, fra Mario Scelba, ex ministro degli Interni, e Salvatore Aldisio, l’uomo forte di Gela.
Non mi sovviene, naturalmente, il merito delle risposte, ma la laconicità di Aldisio, quella sì che mi è rimasta impressa. Ben diversa è stata la conversazione a Caltagirone, con Silvio Milazzo, per il giornale L’Ora. Milazzo amava esprimersi in dialetto, aveva maniere spicce, era loquace, ricco di aneddoti: un contadino-intellettuale abituato a gestire i rapporti umani con semplicità, ma attento ai ruoli. Insomma “io sò io, e tu…un’altra cosa”, per parafrasare il Marchese del Grillo.
Lasciai la Villa del Carrubbo con il cuore lacerato: la gioia della prima intervista importante, e la umiliazione di essere stato considerato per quello che ero, un ragazzino che aveva turbato la quiete dell’ex ministro.
L’idea s’insinuò dentro di me generando un pregiudizio duro a morire: che Aldisio avesse cioè un atteggiamento altero, con scatti di contenuta insofferenza, e la maschera del gentiluomo d’altri tempi dotato di una inappuntabile compitezza cerimoniosa, una singolarità irripetibile. Da allora il potere ebbe ai miei occhi quella faccia, quelle mani, quella impazienza, quella presunta sdegnosità verso chi non contava niente o quasi.
Salvatore Aldisio fu ben altro che il mio giovanile pregiudizio. La insofferenza mi fu confermata da chi lo frequentava, ma come non considerare che insorgesse in un uomo che, dopo le fatiche romane, arrivato nella sua città, veniva investito dalla corte dei miracoli: questuanti che lo investivano dei loro bisogni e delle loro pretese, così distanti dall’attività politica e di governo, alla quale amava dedicarsi. Secondo la comune considerazione era un uomo d’ordine, di costumi morigerati, ricco d’esperienza, e di buone maniere.
E forse a questa qualità si deve la longevità politica: entrò in Parlamento che non aveva compiuto nemmeno trenta anni, prima del fascismo, poi la vita militare durante il conflitto mondiale, quindi l’esilio volontario in campagna, nel Gelese, dove possedeva una grande proprietà terriera (donata ai salesiani).
C’è un mio ricordo, tuttavia, che precede l’intervista alla villa del carrubo: una macchina blu percorre a notte fonda Corso Vittorio Emanuele, preceduta da agenti motociclisti, che colpisce la mia fantasia. Con l’auto blu viaggia l’allora presidente della Regione, Giuseppe Alessi, ed è diretta alla dimora di Aldisio.
Alessi si è dimesso da presidente della Regione, Roma boicotta lo Statuto speciale della Regione siciliana, il contenzioso riguarda l’art. 31 che affida al presidente della Regione il mantenimento dell’ordine pubblico a mezzo della polizia dello Stato, la quale nella Regione dipende disciplinarmente, per l’impiego e l’utilizzazione, dal governo regionale. Aldisio era ascoltato, ed i suoi consigli tenuti in gran considerazione.
Molti anni dopo assistetti ad una conferenza stampa di Alessi, ormai centenario, ma lucidissimo e brillante come sempre, a Palazzo dei Normanni, sede dell’Ars, durante la quale l’ex presidente della Regione ricorda il ruolo di Salvatore Aldisio nella fondazione della Dc e nella svolta autonomista siciliana.
Fu lui il padre dell’autonomia e del partito, ricorda Alessi. Nelle sue parole c’era affetto, stima e riconoscimento della rilevanza di Aldisio nella storia del Paese. Lo scarto fra i ruoli decisivi che Aldisio assunse nel Paese e la sua immagine scolorita a Gela e in Sicilia.
Mettere insieme quel che Aldisio è stato per Gela e ciò che egli è ora per noi, sopravvissuti al suo tempo, dovrebbe essere il compito della sua città. La questione non sta nel “Who’s done it?”, che cosa ha fatto per la sua città, o “il faut cultiver notre jardin”, cioè il dovere di occuparci dei di personaggi di casa nostra, piuttosto il dovere di rimediare alla coazione all’oblio che emana dal contesto in cui Salvatore Aldisio è vissuto.
Viene da chiedersi, per come stanno le cose, in qualche misura lo stesso Aldisio abbia contribuito all’oblio, all’inesistenza, al non volere essere ricordato.
Comunque la si pensi, i personaggi come lui, che hanno fatto la storia, se ne sono andati tutti e non possono dettarci il loro racconto dei fatti. Spetta a noi farlo.