Sulla sabbia di Gela colore della paglia
mi stendevo fanciullo in riva al mare, antico di Grecia
con molti sogni, nei pugni, stretti nel petto.
Là Eschilo esule misurò versi e passi sconsolati,
In quel golfo arso l’aquila lo vide e fu l’ultimo giorno.
Salvatore Quasimodo (nella foto) è celebre per questi versi, che gonfiano il petto d’orgoglio ai gelesi, e regalano sogni al turismo balneare decapitato dall’industria e dalle petroliere al largo nel golfo. La poesia non evoca solo sogni e pugni stretti nel petto, né si ferma ai passi sconsolati di Eschilo prima della sua morte. Essa ha una coda velenosa, per molti ignota, che ha il valore di una profezia.
Una falsa profezia, invero. Prosegue con un maleficio scagliato dal poeta contro l’Uomo del Nord, quel demone che ha cambiato la storia di Gela portando il mostro a Piana del Signore. Il sospetto dura lo spazio di un respiro. Il nemico di Quasimodo è un poeta del quale non conosciamo il nome. “Oggi i poeti vivono tra i coltelli”, annuncia Quasimodo, all’indomani dell’assegnazione del Premio Nobel (uno dei pochi Premi Nobel italiani, il terzo per la letteratura, nel 1959, dopo Carducci e la Deledda). Leggiamola, dunque, questa “fattura” in versi.
Uomo del Nord, che mi vuoi
minimo o morto per tua pace, spera:
la madre di mio padre avrà cent'anni
a nuova primavera. Spera: ch'io domani
non giochi col tuo cranio giallo per le piogge.
Come spiegare l’alchimia, che lascia convivere la dolorosa invettiva alla leggiadra memoria d’infanzia, ai colori soavi della spiaggia, al mito della grecità?
La risposta viene dai turbamenti del poeta fanciullo, i continui traslochi da un capo all’altro della Sicilia (ben 14), le catastrofi naturali cui ha assistito, (un’alluvione a Modica nel settembre 1902, con cento morti, e il terremoto di Messina sei anni dopo). Da una giovinezza infelice che lo farà vivere fra calcoli e segni geometrici.
Cicatrici che non rimarginano. I tempi duri finiscono, ma l’animo del poeta non guarisce, resta esacerbato. Quando Elio Vittorini, marito della sorella lo introduce nell’ambiente letterario milanese, il mal di vivere non lo abbandonerà. L’innamoramento per i lirici greci attutisce il malessere, tuttavia. E gli fanno guadagnare quel successo che lo accrediterà come il candidato vincente al Nobel per la letteratura.
Nel1959 gli viene assegnato «per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi», il trionfo sembra conciliarlo con il mondo. L’“io” orgoglioso e schivo della prima maniera si fa ora “noi” fraterno e umano e il poeta non è, come Ungaretti, «grumo» di sogni, ma «operaio».
Quasimodo abbandona l’ermetismo, del quale è stato una delle voci più autorevoli, e dedica i suoi versi alla condizione dell’uomo del suo tempo, all’Italia del neocapitalismo, del consumismo e dell’arroganza. La Sicilia resta “la sua siepe”. Non è una metamorfosi, tuttavia. Greco-siciliano, come amava definirsi, non tradirà il suo destino: quello di un uomo ferito, sradicato, “reduce di esperienze frantumate e difettose”.
“…la nostra terra è lontana nel Sud, /calda di lagrime e di lutti. Donne,/ laggiù, nei neri scialli/ parlano a mezza voce della morte,/ sugli usci di casa.”….Anch’io non ho cercato lontano il mio canto, e il mio paesaggio non è mitologico o parnassiano: là c’è l’Anapo e l’Imera e il Platani e il Ciane con i papiri e gli eucalyptus, là Pantalica con le sue tane tombali scavate quarantacinque secoli prima di Cristo, “fitte come celle d’alveare”, là Gela e Megara Iblea e Lentini: un amore, come dicevo che non può dire alla memoria di fuggire per sempre da quei luoghi".
Gela, dove Quasimodo frequenta le elementari, rimane fra i ricordi più saldi. «… quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello e alcuni versi in tasca. …», non perde le sue radici. Gela lo ricambiò con un prestigioso riconoscimento, premiandolo con il Sileno d’oro nella prima sua felice edizione, e anni dopo con il Timone d’Argento del Club Nautico, una piazzetta fuori mano (la toponomastica gelese è una penosa fucina di clientele) ed un convegno internazionale di studi svoltosi il 25 e 26 ottobre del 2001 nell’ex Convento dei Benedettini, convegno del quale purtroppo non è rimasto niente, nemmeno gli atti.
Quando gli viene assegnato il Sileno d’oro, Quasimodo rilascia una intervista nella quale emergono i suoi ricordi più vivi della sua infanzia gelese. “Ho partecipato, fanciullo, alle cerimonie per la giornata inaugurale dell’accensione della luce elettrica a Gela, un episodio rimasto nella memoria, perché mi ha emozionato...”. E confessa anche al cronista di sentirsi perseguitato perché si sarebbe sparsa la voce, non vera, della sua appartenenza ad un partito di estrema sinistra. Il dopo-Nobel allevia dunque il suo malessere, ma non lo cancella.
La sofferenza nasce dall’antica condizione di marginalità, dalle sue vecchie frustrazioni, oppure dai fantasmi del suo inconscio? Si sente accerchiato. La critica non è unanime, in Italia, sul Nobel. Articoli e recensioni, in ispecie sulle traduzioni dei lirici greci da autodidatta, fanno credere che l’Italia avrebbe potuto essere nobilitata in modo più conveniente.
E’ stato preferito a Ungaretti, e ci si chiede per quali meriti. Il non detto pesa più della benevolenza offerta con spocchia. Leonardo Sciascia, anni dopo, scriverà che la sicilianità non lo avrebbe avvantaggiato. Può darsi. Penso tuttavia che sia stata l’accademia, gli intellettuali di prima fila, ad averlo tenuto sotto stretta vigilanza.
Che abbia ricevuto critiche anche dopo la sua morte, è una realtà. Il figlio Alessandro, perfino lui, ha reso infelici dichiarazioni sul poeta per via del divorzio ed il nuovo matrimonio con una donna dello spettacolo. Non gliel’ha perdonata.
Non solo, Alessandro ha messo all’asta, e venduto, per centomila euro, la medaglia consegnata al padre dall’accademia svedese in occasione della premiazione del Nobel. Il gossip familiare è una storia triste, che tuttavia nulla toglie ai meriti del poeta. Che sono tanti. Ed al suo viscerale attaccamento alla sua terra, la Sicilia, isola greca per alcuni secoli, di cui il poeta porta il sangue per via della nonna materna, arrivata a Roccalumera da Patrasso.
A 54 anni dalla sua morte (14 giugno 1968, ad Amalfi,) quale eredità ci ha trasmesso Salvatore Quasimodo? Che cosa abbiamo appreso di lui e dei suoi versi? E quanto abbiamo capito della sua fragilità, del suo sentirsi isola, esule e pellegrino, perseguitato, per usare le sue parole? E’ riuscito a farci innamorare della sua poesia?
Non so rispondere ad alcuna di queste domande. O meglio, le mie risposte sono mute, non hanno parole. E se me ne sovvengono alcune, sono quelle che compongono i suoi versi. I poeti parlano attraverso quelli. “La pittura è una poesia muta e la poesia una pittura parlante”, afferma Simonide di Ceo.
Nelle poesie di Quasimodo si depositano gli odori ed i colori della Sicilia, i segni labili della casa perduta, dei paesi sommersi nel cuore, le tombe di macerie. Si deposita l’erba maligna che solleva i fiori, la gazza nera sugli aranci, le spine di fichidindia, le acque viola di Messina con i fili spezzati. E la mite Tindari, la sabbia di Gela color paglia. Emozioni, non parole. Palpiti di vita. Sogni, incubi.
“Ognuno sta solo sul cuore della terra/ trafitto da un raggio di sole:/ed è subito sera.” E’ la poesia più celebre di Quasimodo. Fossi costretto a raccontare il poeta – la vita, gli amori, le lagrime, i languori, la gioia amara, i finti timori – lo farei proprio con questa brevissima poesia. Non aggiungerei altro, a meno che non fosse una finestra aperta, un fremito di speranza. Ho pensato perciò a Ungaretti, per il quale ho avuto una infatuazione giovanile. M’illumino d’immenso”, è il suo testamento poetico.
L’attimo fuggente folgora l’eternità e cattura l’infinito. Quasimodo, come Ungaretti, coglie quell’attimo, l’attimo che spaura, lascia senza fiato, inermi e smarriti, ma “E’ subito sera”. Una lancia che trafigge il cuore, che Ungaretti colma di immensità.
Il raggio di sole è il dono della vita. Poi giunge, fulminea, la sera, la caducità dell’esistenza, la precarietà. Non c’è tempo, non c’è mai tempo, avverte Quasimodo. La vita può frantumarsi in mille rimpianti, e la sera coglierci impreparati e attoniti. Perché l’uomo è solo, “cuor della terra”; e dalla solitudine si fugge solo se dentro di noi, nel petto, ci sono tutti gli uomini; se ci sentiamo umanità, non individui. Forse è l’illusione, proprio l’illusione che ci fa sentire traditi, che potrà guarirci, e prolungare il lampo di luce.
Leggendo e rileggendo, colgo comuni sentimenti fra i due poeti, e magari sto prendendo un abbaglio: è verosimile però che Ungaretti e Quasimodo, abbagliati dal miracolo della vita, si siano ritrovati in un universo parallelo, l’universo della poesia. E’ qui che si sono incontrati ed hanno camminato insieme. Ed è in questo universo ideale che può abitare chiunque abbia la poesia nel cuore. Non serve il talento, serve l’animo aperto, generoso.
L’infatuazione per quel “M’illumino d’immenso” mi ha indotto, naturaliter, ad accostare Quasimodo a Ungaretti, e mi regala una poesia nuova: “M’illumino d’immenso. Ed è subito sera”. Quel raggio di sole, piuttosto che trafiggere, mi accarezza, mi accompagna con mano verso il tramonto con i suoi colori tenui e gentili.
L’inquietudine si placa, si avverte anzi una dolce malinconia, sentimento che sommerge chi ha percorso tutte le strade del mondo ed è giunto alla fine del viaggio. La luce, abbagliante, dell’immensità, non è più una spada, nutre del suo calore, e rivela il senso alla vita.
Fra Ungaretti e Quasimodo, entrambi candidati al Nobel, sorse una querelle. La poesia, ancora un miracolo, li fa abbracciare. E’ un privilegio che può essere condiviso, se lo vogliamo.
Solo i poeti possono poetare con l’animo di fanciullo, illuminarsi d’immenso senza ubriacarsi di gioia, tanto da accettare la sera, l’ultima, come fosse quella attesa, giorno dopo giorno, e senza inquietudine, nel corso della vita?
No, poetare è possibile a tutti. Basta provarci, senza timidezze. Magari servendosi dell’ispirazione dei grandi poeti.
Io ho provato, ho aggiunto l’ultimo verso dell’Infinito di Giacomo Leopardi, "Naufragar m’è dolce…” agli altri due, e ho scoperto che è proprio quello che mancava: “M’illumino d’immenso/ Ed è subito sera/ Naufragar m’è dolce…”
In questo mare, il proseguo, l’ho tenuto in serbo, in attesa di ispirazione. Ognuno deve poter naufragare quando e dove vuole, e lasciarsi trascinare in un sogno ad occhi aperti. O appena socchiusi.