Leonardo Sciascia (nella foto) è stato ricordato di recente, in tono dimesso invero, in occasione dei cento anni dalla nascita.
Con la sua scomparsa il silenzio sulla Sicilia del malaffare si è fatto rumoroso. Avendo letto molte sue opere in età giovanile, la mia scrittura è stata, in qualche modo, contagiata, e le sue idee sono diventate parte del mio bagaglio culturale.
Per poterne scrivere in occasione dell’anniversario, ho cercato quel che accomuna Gela a Sciascia. Due sono gli omaggi resi da Gela allo scrittore: Il Sileno d’Oro nel 1963, e il Timone d’argento del Club Nautico nel 1975. Sciascia, di contro, si è occupato di Gela, e ne ha scritto, nel 1963, dopo il vernissage dello stabilimento petrolchimico: un articolo ed il commento ad un film, commissionato dall’Eni.
Racalmuto, città natale di Leonardo Sciascia, dista un centinaio di km da Gela, viene da pensare perciò che le vicende gelesi, almeno quelle che escono dai confini urbani, come la rivoluzione industriale a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta, sia arrivata a Racalmuto. Ma non ci giurerei. Nelle parrocchie di Regalpietra, il nome con cui Sciascia ha battezzato Racalmuto in un suo delizioso libro che lo fece conoscere al grande pubblico, si avevano altri argomenti su cui discorrere. Ed essi erano di tale interesse che ispirarono a Leonardo Sciascia il suo libro più celebre.
Le parrocchie e la petrolchimica non hanno niente da spartire. Che Sciascia, come tutti noi, sia stato preso dalla botta – non si è capito niente di quel che succede, tanto da restare intronati senza saperlo – ed in tale condizione si trovasse quando scrisse sul “miracolo” di Gela industrializzata – la prima volta di un miracolo a rate - su invito di Attilio Bertolucci, uno dei grandi poeti italiani del Novecento.
Bertolucci, padre del grande regista Paolo, dirigeva Il Gatto Selvatico, la rivista dell’Eni. Enrico Mattei, siamo nel 1962, allora corteggiava per interposta persona poeti, pensatori e scrittori – da Mino Maccari a Goffredo Parise, da Giovanni Comisso, Carlo Emilio Gadda, da Natalia Ginzburg a Raffaele La Capria. E su Leonardo Sciascia aveva puntato gli occhi in occasione della rivoluzione industriale gelese.
Non so se Enrico Mattei e Leonardo Sciascia si siano incontrati, la cosa m’intriga – non lo nego – ma è come se lo avessero fatto, perché Sciascia preferiva sceglier da sé gli argomenti su cui scrivere; se ha scritto su Gela, facendo una eccezione, vuol dire che è stato, come dire, corteggiato. Penso che Attilio Bertolucci, o lo stesso Mattei, non abbiano dovuto faticare per convincerlo, che credesse nella fabbrica e nel petrolio, e che si fosse fatto una idea positiva sul conto del grande Capitano d’industria, sceso giù al sud come l’Arcangelo Gabriele, per curare le antiche ferite del Mezzogiorno abbandonato al suo destino.
Sciascia era l’icona della Sicilia, l’uomo giusto per fare passare il messaggio giusto. Era schivo e di scarse cerimonie, un siciliano intelligente e credibile, corrivo verso gli untori del pregiudizio e verso maneggioni e mafiosi, ovunque si risiedessero. Erano entrambi, Sciascia e Mattei, in sintonia sull’investimento a Gela. Se le cose sono andate diversamente, non mi sento di gettare la croce su alcuno dei due; sul primo perché non capì, come tanti, che avrebbe potuto trasformarsi in una mezza trappola; il secondo perché fu tolto di mezzo sul cielo di Bascapè, proprio nel 1963.
Sciascia, dunque, non si sottrasse all’invito di Paolo Bertolucci, e scrisse di “Gela, realtà e condizione umana”, su Il Gatto Selvatico, e il testo sarebbe diventato il canovaccio del commento che avrebbe accompagnato le immagini di un film di grande effetto, diretto dal regista Giuseppe Ferrara.
La cinepresa di Ferrara arrivò a Gela nel 1963, e il film poté essere visto, ed apprezzato, l’anno successivo. Il testo di Leonardo Sciascia incontrò il favore dell’opinione pubblica. Era appena sorta dal nulla una delle più grandi fabbriche d’Italia. Quel mostro d’acciaio non faceva paura, era diventato simbolo di una nuova età, quella dell’oro: il salto apparve impressionante. Ferrara mise accanto tradizioni e dei costumi locali antichi, quella città che credeva nei miracoli “veri”, concessi da Gesù Cristo, la Madonna ed il Crocifisso (quest’ultimo molto apprezzato dai pescatori).
Scorrevano sullo schermo i gesti semplici della gente umile e modesta: i bambini spogliati in occasione della Madonna delle Grazie, ed i loro vestitini donati ai coetanei, ancora più poveri. E le facce rugose dei contadini, le ragazzette imbellettate, le luminarie, la folla in pellegrinaggio dietro i simulacri e tutto ciò che ogni paesone siciliano si porta dietro da secoli. Il testo di Leonardo Sciascia asseconda il film sulla Gela com’era, e su come sarebbe presto diventata.
Dalle parrocchie di Regalpetra alle gru di Piana del Signore fu un salto nel buio. Sciascia, che era un cinefilo, aveva in testa i filmoni hollywoodiani dedicati all’epopea del petrolio, simbolo di ricchezza, prosperità e benessere. Per lo scrittore, come per ogni gelese, anche di forte concetto le trivelle di Gela avrebbero messo fine alla secolare povertà del Mezzogiorno.
Com’è possibile che il buonsenso si inchini al mito? I miti sono idee semplici e comode, La metafora della povertà e quella dell’industria, portatrice di benessere, messe insieme, cancellano ogni dubbio ed ogni scetticismo: l'effetto è fanno apparire la povertà ancora più povera, e la fabbrica, come Gesù, la Madonna, il Crocifisso e tutti i santi, messi insieme.
Non c’è partita, insomma.
Mentre scorrono le immagini del gigante di acciaio che nasce e cresce, lo spettatore spalanca gli occhi e li socchiude soltanto quando esse indugiano sulle facce rugose dei contadini e quelle innocenti e inermi dei bambini nell’atto della svestizione per l’offerta davanti al simulacro della Madonna delle Grazie, muta e paziente.
La cinepresa ci conduce con mano sulle strade dello stabilimento, dove ferve il lavoro e danzano le macchine. “E’ il risultato di 30 milioni di ore lavorative – ricorda il commento – di un investimento di 140 miliardi di lire. Una leva potente usata dall’Eni per spezzare il cerchio di una secolare stagnazione.” E riaffiora di nuovo. Quando le immagini sfumano sulla fabbrica ritorna in primo piano "il tremendo tema della povertà siciliana, mentre non lontana batte come un cuore nuovo, come una nuova vita, la produzione della ricchezza".
Chi osa avere dubbi? E con quali strumenti? Quali verità? Quali reconditi fini? E’ la prima volta che lo Stato sbarca nel Sud, e lo fa senza badare a spese.
Sarebbe una imperdonabile omissione se mi fermassi qui. Sciascia ci cascò, come tutti noi.
Lo scrittore si è occupato di Gela tutte le volte che si è occupato della Sicilia e dei siciliani, tutte le volte che ha ingaggiato le sue battaglie di civiltà, alle quali certamente Gela non è estranea. E fra queste c’è quella contro la mafia e, in solitudine, contro coloro che salivano sul treno antimafia per poterne trarre benefici, facendosi nemici su entrambi i fronti, sopportando accuse di oggettiva alleanza con i malandrini per il suo garantismo. Avrei sottoscritto ogni sua parola, ogni suo gesto.
Denunciò “lo scampanare allarme per l’attentato alle libertà e alla indipendenza dei magistrati e del potere giudiziario,…i cortei le tavole rotonde i dibattiti sulla mafia in un paese in cui la retorica e la falsificazione stanno dietro ad ogni angolo e servono a dare l’illusione che si faccia qualcosa, specialmente quando nulla si fa…”. Gli erano estranei l’enfasi celebrativa, il conformismo. Lo irritava “il più che si mostra e si scrive”. “Preferirò sempre, ripeté come un mantra, che la giustizia venga danneggiata anziché negata, questa è la mia eresia, gli inquisitori mi diano la condanna che vogliono.”
Riusciva a far scendere dal piedistallo chi stava in alto e ne approfittava. E s’arrabbiava quando gli appiccicavano l’etichetta del mafiologo. “Per me, diceva, c’è chi capisce e chi non capisce.” O non vuole capire, aggiungo, perché nel non detto c’era anche questo.
Questo era Sciascia, cittadino esemplare e uomo dabbene.
Concludo con un ricordo personale. Grazie ai buoni uffici di amici comuni, ottenni una sua intervista, della quale non ricordo nulla, se non la lezione di sobrietà che mi diede, la naturale propensione a discorrere di cose che sapeva, non altro. Non amava le interviste, perché preferiva rispondere per iscritto a domande poste per iscritto. E non per diffidenza, sebbene per la sua naturale attitudine alla scrittura. Di quella conversazione con lui, nel 1985 (o ’86), mi è rimasto il tono pacato, le parole centellinate, di buonsenso, e tutte messe in fila, con ordine, una dopo l’altra. Come le pedine di una scacchiera facile da usare.
L’infatuazione per le trivelle? Chi è senza peccato…