Rosa Balistreri (nella foto) cantava. Lo faceva anche quando parlava, si muoveva, gesticolava o stava in silenzio, cantava.
Cantava con un filo di voce e la sua chitarra, e urlava il suo disamore per la vita che il destino gli aveva assegnato. Sia che la voce fosse aspra, aggressiva come la lama di un coltello, non perdeva la dolcezza, la mitezza. Come fosse possibile non lo so spiegare. Forse non c’è alcuna spiegazione. Rosa, popolana aristocratica, passionaria infelice, feroce e gentile, forte e fragile, non può essere raccontata.
Dipanare il filo della memoria quando si ricorda una persona come Rosa, ogni cosa diventa niente: ciò che ti appresti a dire, scrivere, rievocare, sembra inadeguato, o sbagliato. I ricordi che ti accostano al personaggio ti assalgono, invadono la mente, i pensieri competono per impadronirsi della immaginazione. Alla fine quello che resta ti pare povero, si riduce a un solo istante, e tutto gira attorno a quell’istante.
L’ho incontrata a Gela, dove l’ho frequentata grazie a Pietro Palma, che amava cantare e suonare la chitarra insieme a lei, oltre che dipingere. Ogni volta una cena, un pranzo, un incontro si trasformava in qualcosa di irripetibile.
Sono pochi che sanno di Rosa a Gela e delle sue amicizie locali. Che non erano tante, ma solide e radicate. La sua permanenza a Gela era sempre breve ed era riservata agli amici più cari, come Pietro. Forse non basta per fare di lei una gelese d’adozione, ma basta perché quei pochi la adorassero, le facessero meritare una virtuale cittadinanza. Ed è per questa ragione, che voglio ricordarla.
Rosa cantava e componeva le sue canzoni per raccontarsi e raccontare, e non aveva bisogno che qualcuno le chiedesse di cantare. Era lei che amava regalarci, e regalarsi, ciò che aveva dentro. Una vita intensa, difficile. E’ morta cento volte ed altrettante volte è rinata. Un cigno bianco a dispetto della voce aspra, a dispetto di quegli occhi, puntati contro il mondo avaro come pugnali acuminati.
Una magarìa, senza pozioni velenose, né code di serpenti. Un incantesimo che si spezzava quando deponeva la sua chitarra e restava in silenzio a scrutare ogni cosa fosse attorno a lei. Forse, pensavo, voleva lasciarci il tempo per custodire ciò che avevamo appena ascoltato, affinché non andasse perduto. Una idea stramba, che pareva metterci in croce, chiederci se avessimo ascoltato, capito…, e nasceva dal bisogno di dare un senso al silenzio spaesante.
Non potevamo essere solo spettatori divertiti ed esangui, estranei alla sua storia. Dovevamo essere qualcosa di più e di meglio. No, non era un esame cui eravamo sottoposti, piuttosto una prova d’affetto. E’ da credere che volesse essere aiutata a portare su di sé gli amori disamorati, affanni, i pensieri di morte che avevano roso la sua esistenza.
Provavo a cantare con lei sotto voce, ma mi faceva sentire fuori posto, non tanto perché fossi stonato, e lo sono da sempre, ma perché quel timbro di voce, quei toni, quella disperata aria di sgomento erano parte del suo mondo. Magarìa era l’atmosfera che Rosa sapeva creare attorno a sé, e più ci penso più credo che non potesse essere descritta altrimenti.
Mi è capitato di associare il volto di Rosa a quello di Anna Magnani; la Magnani de La Sciantosa di Alfredo Giannetti, e di Roma, città aperta di Roberto Rossellini. La sequenza di Anna che corre dietro il camion con cui i nazisti hanno portato via, a morire, il marito. La sua corsa disperata, e la morte: falciata dal mitra di un soldato senza anima. Indimenticabile Anna, indimenticabile Rosa.
Rosa è stata nell’immaginario la popolana dal cuore grande, la protagonista dell’epica dei vinti, il personaggio dolente, incontenibile, che ci lascia sgomenti appena ci si avvicina e ci si lascia rapire dalla sua musica. O, à rebours, a rovescio una aristocratica passionaria dai modi spicci, una Anna Karenina nata e cresciuta a casa nostra, capace di resistere però al destino fino a coinvolgerlo nella sua storia, assegnarle un limite, un confine. L’impossibile.
Rosa Balistreri ha vissuto le storie che cantava. Ha conosciuto il carcere, le ingiustizie, la violenza. Tutto. Ha sopportato un matrimonio combinato, come usava a quel tempo, e un marito, Iachinazzu lo chiamavano, che la spogliò di ogni avere per il gioco, al punto da vendere il corredo della figlia Maria. Un tradimento, uno sgarbo imperdonabile, una cosa che le strappò il cuore la trasformò in una feroce vendicatrice. No, non avrebbe potuto accettarlo Rosa quell’affronto. I risparmi di una vita ed un atroce egoismo, intollerabile per un padre.
Rosa cercò di ammazzarlo e dopo averci provato si costituì subito ai carabinieri pronta ad espiare. Senza pentirsi. La figlia, Maria, non fu vendicata, e rimase vittima del brutto ceffo con il quale s’era sposata. Ammazzata, non so per quale motivo. E quel corredo rubato fu il suggello del destino infelice per Rosa. Di una tragedia senza fine.
Scarcerata, Rosa andò in servizio in una casa patrizia a Palermo, il padrone di casa la denunciò per un furto, tornò in galera e vi rimase per sette mesi. Un po' di requie e poi un’altra brutta pagina. Conobbe un compagno “intellettuale”, si legò a lui e venne abbandonata per una modella. Si aprì a questo punto uno spiraglio, grazie alle relazioni che ebbe occasione di allacciare con un poeta siciliano, Ignazio Buttitta, e con star dello spettacolo, come Arnoldo Foà, che la volle nel suo spettacolo, “Ci ragiono e canto”.
L’Italia si accorse di lei in un tempo in cui i siciliani erano “solo” mafia, e fu una buona cosa. Lei, Rosa, non li temeva quelli con la coppola storta e i fucili a canne mozza, né i pregiudizi. Tenne la schiena dritta, sempre e ovunque.
Era il tempo in cui i Bravi di Alessandro Manzoni non erano mafiosi perché i lombardi non lo possono essere per nascita e lignaggio; era il tempo in cui il “nostro” Vitaliano Brancati fece un ritratto severo di una sicilianità spaesata e antica, nella quale i siciliani veri avevano “i sogni e la mente, e i discorsi, e il sangue stesso perpetuamente abitati dalla donna” con la conseguenza che “nessuno sa poi reggere alla presenza di lei”. L’avesse detto in faccia a Rosa, la cantantessa gli avrebbe voltato le spalle. Aveva conosciuto l’amore degli uomini, violento prepotente, bastardo.
Una delle canzoni di Rosa l’ho conservata su un quaderno, e questo quaderno non è andato perduto. Rileggendola Rosa è ricomparsa, sofferente e ferita, ma viva.
“Morsi cu morsi e cu m’amava persi, /comu fineru li jochi e li spassi!/ La bedda libirtà comu la persi, /l’annu ‘mputiri li canazzi corsi./ Chiancinu tutti, li luini e l’ursi, /chianci me matri ca vivu mi persi. /Cu dumanna di mia, comu ‘un ci fussi, /scrivitimi a lu libru di li persi.”
E’ morta chi è morta e ho perso chi mi amava, i giochi e gli spassi sono finiti. Ho perso la bella libertà, sono ormai in potere degli sbirri, feroci come i cani corsi: e perciò piangono tutti, anche i leoni e gli orsi; e piange mia madre, che vivo mi perse. A chi domanda di me, come non ci fossi: scrivetemi nel libro dei persi.
Scorrendo le pagine di un saggio di Leonardo Sciascia scopro che c’è lei, e anche quella cantata accanto a Renato Guttuso, il pittore siciliano che “accompagna il canto a mezza voce, lo alza e impenna nel gesto della mano, nell’agitata voluta di fumo che sale dalla sigaretta, mentre la mano ricade sul libro dei persi….”.
La discografia che ci ha lasciato è diventata oggetto di culto, la traccia di un’epoca – gli anni cinquanta e sessanta – che non ha nascosto i fantasmi della sofferenza, archiviati dall’Italia che rinasceva, al servizio dei commendatori e della famiglia Brambilla.
A Rosa è toccato di precedere Andrea Camilleri, con il suo siciliano stretto e vigoroso, un merito che le viene dalle canzoni dialettali, che componeva. Il Paese cominciò a capire il “siciliano” con lei, prima che si aprisse a tutti, a vele spiegate, con Camilleri.
Gli occhi spalancati e disperati di Rosa Balistreri in cerca di futuro continuano a guardarmi. E i sorrisi forzati, e gli improvvisi momenti d’angoscia, i pensieri affaticati, sono custoditi nella memoria affollata da tante cose inutili.