“Il faut cultiver notre jardin”. E’ un vecchio sentimento, che la letteratura francese ha diffuso ovunque e che in Italia è stato accolto come un avvertimento a quanti devono rivolgersi ad un ufficio pubblico e aspirare nei suoi buoni uffici.
La consegna per il “pubblico ufficiale”, al servizio dei cittadini, dovrebbe essere l’opposto: il faut cultiver votre jardin, rispondere cioè ai bisogni dei cittadini. Sulla burocrazia, e di conseguenza sui burocrati, sono state scaricate tutte le responsabilità delle cose che non vanno, le frustrazioni dei cittadini, le ingiustizie extra moenia, cioè esterne ai tribunali. Ogni male possibile, l’oscurantismo avrebbe trovato una location naturale negli uffici pubblici.
Le cose non stanno esattamente così, ci sono burocrati che governano (anche i governanti) e fanno il bello e il cattivo tempo, e burocrati che fanno invece il loro dovere, e si prendono pesci in faccia. Cornuti e mazziati, insomma.
Questa premessa mi serve per dare conto ai lettori della scelta di ricordare un burocrate “diverso”, gelese di adozione, Alfonso Cimino, che per quasi trenta anni – non ho ricordi netti – è rimasto al vertice della burocrazia municipale a Gela, ed è riuscito a non scontentare né i politici, che di volta in volta si sono affacciati al Palazzo di Città, né i cittadini che hanno avuto a che fare con la pubblica amministrazione. Un autentico miracolo.
So bene che una rondine non fa primavera, e che la competenza, le buone maniere, la intelligente duttilità di Alfonso Cimino non basta a rivoltare l’immagine, resta infatti il peso insostenibile di una burocrazia avvinghiata come l’edera a norme farraginose e mal scritte, ma serve sicuramente ad aprire gli occhi sul fatto che non bisogna fare di tutta l’erba un fascio.
Alfonso Cimino è un’eccezione, è stato un eccellente civil servant e un gentiluomo, che ha servito (e non si è servito) della cosa pubblica, andandosene con un giustificato rimpianto generale.
Alfonso Cimino era un ragioniere e prima di governare la burocrazia comunale, come segretario generale facente funzioni, governava i conti del comune di Gela. E’ da lì, dai conti, che arriva (e da Racalmuto, la piccola patria cui era molto affezionato, come concittadino di Leonardo Sciascia, inteso Nanà Sciascia), è con i conti che si è formato e in quel paese dell’agrigentino che, grazie al suo cittadino più illustre, ha rivelato al mondo una Sicilia saggia e di buona volontà.
Sia la mentalità ragionieristica quanto la saggezza racalmutese costituiscono una peculiarità di Alfonso Cimino. Chi è aduso a far di conto – la matematica non è un’opinione – difficilmente si adatta ad esercitare un ruolo di terzietà, fra cittadini e amministrazione servente, che pretende “creatività” e grande flessibilità. Per il ragioniere Cimino due e due fanno quattro, per gli amministratori, qualunque sia il colore politico, due e due fanno cinque quando serve e non c’è verso di persuaderli che non è così.
Divenuto segretario generale facente funzioni, rimanendo vice segretario, Cimino riuscì a non dispiacere chi stava sulla tolda di comando: rispettando la matematica si può ottenere il risultato sperato. In che modo? Invece che presentare conti sbagliati, causa di sicuri dispiaceri, è preferibile accettare le leggi della matematica, o stare dentro la filosofia che i numeri propongono. Che significa? Provo a spiegarlo, ma non è facile.
La metafora che sottende questo ragionamento può apparire complessa, per Alfonso Cimino non lo era, e ne sono testimone, forse, attendibile, avendo avuto a che fare con lui ed avere apprezzato la sua duttilità da bon vivant. Ci si poteva fidare di questa duttilità per una semplice ragione: Alfonso Cimino aveva tracciato confini invalicabili alla flessibilità esercitata con generosità, oltre quei confini “hic sunt leones”, limites invalicabili:
il “ragioniere” avvertiva i suoi interlocutori della necessità di restare nel perimetro e generalmente era ascoltato. L’apparente disaccordo veniva compensato con una exit strategy confortevole. Tutti soddisfatti, seppure a malincuore.
Mi rendo conto di stare infarcendo di sottintesi e “non detto” questo ragionamento tendente a dimostrare l’eccellente navigazione “civile” del ragioniere Cimino e la sua calibrata conduzione della nave comunale, che può suscitare legittime perplessità.
Il timone bisognava lasciarlo a lui, e non perché il ragioniere avesse voglia di esercitare il comando del natante, ma perché i parametri entro i quali agire era lui a possederli ed era bene che restassero nelle sue mani. Finire in fondali basi o naufragare era un rischio costante.
Non è cosa da poco che fosse riuscito, grazie a manovre da provetto timoniere, a raggiungere sempre l’approdo, perché si naviga sempre fra tempeste e onde alte nella pubblica amministrazione, destinataria delle più disparate istanze.
Due più due fa sempre quattro, ma è un quattro più o con due volte “più”, come si usava nella scuola al tempo delle pagelle fatte di numeri. Che Alfonso Cimino fosse nel giusto, ed il suo beheviorismo, fosse l’atteggiamento comportamentale adatto alla circostanza, lo testimonia anche Euclide, il quale non ha mai creduto che le sue diavolerie geometriche esistessero veramente: la sfera o il triangolo non esistono nella realtà, esiste l’idea di sfera e l’idea di triangolo, parafrasando il grande Platone.
Alfonso Cimino si avvicinava all’idea del quattro, come somma di due più due, tanto da soddisfare i bisogno dei suoi amministratori, e concedeva agli interessati di vedere un quattro somigliante al cinque.
Commetterei un imperdonabile peccato di omissione se non facessi cenno alle doti di bonomia, generosità di Alfonso Cimino, Fofò per gli amici; sentimenti e attitudini che non hanno niente a che fare con i numeri, ma riescono a veicolarli con una comunicazione acconcia. Alfonso Cimino aveva sempre il sorriso sulle labbra e quando s’arrabbiava si limitava ad alzare le sopracciglia, o a voltarsi dall’altra parte, come a prendersela con se stesso per il fatto di trovarsi dove si trovava.
Possedeva, beato lui, un temperamento che rimarginava rapidamente le ferite quotidiane. Le piaghe, no, però. Aveva bisogno di più tempo, ma anche da queste emergeva a testa alta.
Consegno alla considerazione dei lettori un aneddoto personale, che mi fa tornare indietro di molti anni, quando Alfonso Cimino era ragioniere generale del comune di Gela. Giovanissimo assessore alle finanze del comune di Gela, socialista e quindi un fanatico della programmazione, decisi di pianificare una spesa decennale del comune di Gela, attraverso investimenti in conto capitale.
Accanto al bilancio preventivo annuale, la programmazione decennale di risorse da reperire attraverso le fonti consuete (provincia, regione, stato ecc.). Le perplessità con cui Alfonso Cimino accolse la mia proposta sono ancora oggi un ricordo vivido della memoria. Quella pianificazione era destinata a rimanere sulla carta ed a manifestare solo la buona volontà di investire nelle opere – servizi di prima necessità – di cui la città aveva bisogno.
Naturalmente ci rimasi male, ma Alfonso Cimino non mi diede nemmeno il tempo di esternare il malumore, che trovò la formula giusta per soddisfare la richiesta. Avrebbe rispettato la sollecitazione e avrei fatto così “bella figura”. Disse di sapere come fare. IL consiglio comunale
approvò, ma le critiche, tutte di natura politica e provenienti dalla maggioranza di centro sinistra oltre che dall’opposizione, furono tutte di principio, riguardanti il buon governo della città. Nessun accenno alla pianificazione decennale degli interventi sulle infrastrutture primarie.
Quelle pagine non erano state nemmeno lette, probabilmente. Di fatto solo Alfonso Cimino aveva letto, e in qualche misura apprezzato, la mia ingenua infatuazione.
Quando lasciai Gela, ogni volta che tornavo a casa, per qualche circostanza pubblica, il “ragioniere” l’ho trovato in prima fila, in platea, e dispensare abbracci ed affettuosità che ancora oggi mi fanno sentire bene. Alfonso Cimino era un uomo che amava il prossimo. Fino a prova contraria, com’è giusto.