Personaggi. Luigi Fleccia bambino adulto che si credeva Tarzan

Personaggi. Luigi Fleccia bambino adulto che si credeva Tarzan

I bambini hanno la porta del Paradiso spalancata.

Quando uno di loro vola in cielo, San Pietro lo accoglie con tutti gli onori e il Padreterno lo colma di baci e abbracci. La porta stretta è riservata agli adulti, che devono meritarsi l’ingresso nel Regno dei Cieli. A meno che gli adulti restino bambini. Quando ciò avviene sogliono guardare il mondo con gli occhi sgranati, sorprendersi, gioire, sorridere di tutto e dolersi di niente. Non conoscono invidia né gelosia, odio o rancore. E se accade di provare un dispiacere, dura così poco che è come se non lo ricordano. Si accontentano di una tenerezza, di una parola, uno sguardo buono. 

Il loro Paradiso forse comincia nel nostro mondo? No, questo no, ma l’amore del Padreterno non aspetta certo che arrivino in cielo per farsi sentire. Come? Siccome il Padreterno ha tanto da fare si fa aiutare dai suoi collaboratori più stretti ed affidabili affinché la vita terrena degli adulti bambini scorra lieta e leggera. Ogni adulto bambino ha quindi un angelo custode, non può essere diversamente. Se così non fosse, non si spiegherebbe la loro amabilità, l’accettazione di una vita che ai nostri appare ingiusta al punto da farci sentire quasi in colpa della nostra, chiamiamola così, normalità. 

Non credete negli angeli custodi? Non ve ne faccio una colpa. Se mi chiedete della loro esistenza, la domanda non mi imbarazza. E la mia risposta è sì, preferisco crederci, ma tenete per voi lettori il mio coming out, perché tanti potrebbero trarre giudizi sbagliati sul mio conto. 

Gela, città in cui ho vissuto per tanti anni, ha avuto i suoi bambini adulti, come tante altre città, e li ha adottati come fossero un patrimonio dell’umanità. Siamo negli anni Cinquanta e Sessanta, un ventennio in cui si usciva ancora di casa per farsi una passeggiata e prendere un po' d’aria, e si andava a cinema con regolarità per sentire emozioni forti. 

Ho trascorso un’adolescenza da cinefilo. Il cinema mi ha sedotto – confesso – senza abbandonarmi. Ho conosciuto, come tanti, i bambini adulti di Gela. Non li ho scherniti, né presi in giro. Non lo ha fatto nessuno, invero, che io ricordi. C’era anzi chi si occupava di loro quotidianamente, come fossero persone di famiglia, e chi, incontrandoli amava rivolgere loro parole gentili. 

Non vorrei indulgere sulla bontà dei gelesi, il sapore dolciastro dei sentimenti mi fa orrore, ma è un fatto che Gela non ha mai fatto del male ai bambini adulti. Ed è una buona cosa. Nino “cosa bona”, di cui ho scritto la settimana scorsa, è stato uno dei più popolari ed amati. Stavolta voglio ricordare, o far conoscere per quelli che non erano ancora nati, un altro adorabile bambino adulto, noto come Luigi Fleccia (o con la fleccia) o come Tarzan. Era un ragazzone con una stazza robusta, il viso rotondo, i capelli ricci e chiari, il sorriso stampato sulla bocca, le mani in tasca e gli occhi grandi. Viveva in un quartiere popolare, in famiglia o ospite di amici e conoscenti. Se ne stava seduto nelle giornate buone con la faccia beata, osservando la gente e rispondeva al saluto della gente alzando il braccio.

 Indossava generalmente una giacchetta molto striminzita, che non corrispondeva alla sua taglia. D’estate preferiva una maglietta bianca dalle maniche corte. Ogni tanto il suo viso appariva burbero, ma non era così. Magari qualcuno l’aveva infastidito e c’era rimasto male. Il cattivo umore che traspariva durava un battito di ciglia. 

Il suo “cognome” posticcio, Fleccia, è dovuto ad una delle sue consuetudini, tenere con sé una fionda, un aggeggio di legno fatto di un rametto biforcuto a forma di Y e dotato di un elastico. Aveva una buona mira. Riusciva a colpire il bersaglio, una bottiglia o una lucertola, anche da lontano. Ed ogni volta che centrava il bersaglio, allargava la bocca compiaciuto e si godeva il plauso dei presenti. 

L’elastico non aveva quasi mai alcun “proiettile”. La fionda non era mai usata come arma, piuttosto come una bacchetta magica. Grazie all’abilità con la quale riusciva ad usarla, la credeva dotata di poteri soprannaturali. Capitava perciò che mirasse verso l’alto, verso il cielo, vedendo un aereo in volo. Allora tendeva la fionda fino allo stremo accontentandosi di avere nel mirino il bersaglio, come quei cacciatori generosi che risparmiano il cervo quando ce l’hanno nel mirino. 

Conclusa la dimostrazione, riponeva la fionda in tasca e voltava le spalle ai presenti. Sembrava che dicesse, con uno sguardo astuto: ci avete creduto, vero, che sparassi all’aereo… Ma io non faccio male a nessuno. Certo, quel bersaglio tante volte messo nel mirino della fionda, doveva pur significare qualcosa nella mente di Luigi. Forse gli piaceva giocare e basta, o mostrare una sorta di ostilità verso quell’oggetto che niente aveva a che fare con il cielo. Ci sono fotografie che immortalano Luigi nell’atto di scoccare la fionda mentre scruta il cielo attraversato da un velivolo. 

Il lato più interessante della personalità di Luigi Fleccia ce la racconta il suo secondo nome, Tarzan. Vi devo portare indietro di molti anni però. Al cinema degli anni Cinquanta, in particolare ai film americani, al western dedicato alla conquista dell’Est, alle epiche battaglie contro gli indiani, ai duelli del tipo “mezzogiorno di fuoco”, e alle avventure di Tarzan. I ragazzi di quel tempo, ed io fra loro, non pensavano affatto che fossero “americanate”. Quel cinema ci piaceva, eccome. L’uomo bianco era buono e gli indiani, alla ricerca di scalpi, malvagi.  Quante bugie!

Quando arrivava il Settimo Cavalleggeri a salvare la carovana dei bianchi aggredita dagli indiani, ci alzavamo festanti dalle poltroncine e urlavamo la nostra felicità, battendo le mani fino al “The end”. 

C’erano altri filoni hollywoodiani che abbiamo amato da ragazzi: uno dedicato a Francis, il mulo parlante, davvero piacevole, e l’altro dedicato alle avventure di Tarzan, re della foresta e amico degli animali, alla sua giovane moglie bionda, Jane, e Cita, la scimmia di fiducia. Tarzan – all’origine l’attore Johnny Weissmuller – era stato allevato nella giungla dalle scimmie, la giungla era la sua casa, i suoi amici gli animali della foresta: elefanti, leoni, pantere, tigri, proprio tutti. 

Nelle avventure di Tarzan l’uomo bianco era quasi sempre malvagio. Quando entrava nella foresta aveva sempre brutte intenzioni: caccia agli elefanti, cattura di animali, devastazione della giungla. Il re della foresta, volando da un albero all’altro, grazie alle liane, organizzava un’accoglienza non proprio amichevole. Tarzan – muscoli d’acciaio e cuore d’oro – era  difensore della natura, dunque. A quel tempo non c’era Greta Thumberg. 

Per radunare gli amici animali Tarzan usava un urlo, prolungato e dotato di varie tonalità. In breve tempo gli animali accorrevano e, guidati da Tarzan, sistemavano le cose. L’urlo dunque rappresentava la svolta, il momento-clou del film, equivalente all’arrivo del Settimo Cavalleggeri nei western. Il banzai, la riscossa, insomma. 

La forza di Tarzan non era solo l’esercito degli animali, ma la sua agilità e quell’urlo inimitabile. 

Tarzan, insomma, era il buono a tutto tondo, e il suo urlo, lungo profondo e modulato, un richiamo irresistibile. Non solo per leoni e tigri, ma anche per noi ragazzi. Ricordo che la figurina “Tarzan con la voce”, nelle collezioni era la più pregiata, perché mostrava appunto Tarzan nell’atto di far sentire la propria voce, amplificando l’urlo grazie alla mano destra accostata alla bocca. 

Se per noi ragazzi l’urlo di Tarzan era diventato un segnale di rivolta, la vittoria sui cattivi, per Luigi era un irresistibile richiamo. Luigi sapeva imitare l’inimitabile urlo. Siccome non si perdeva un solo film su Tarzan, gli spettatori che si recavano al cinema sapevano che avrebbero visto con Tarzan Luigi Fleccia. Appena la voce di Tarzan si faceva sentire, Luigi lasciava di corsa la sedia, correva vicino allo schermo, si girava verso la platea e lanciava il suo urlo, prolungato e profondo, le mani accanto alla bocca, giusto come Tarzan. Ed era un tripudio di applausi. Così i nostri spiriti irrequieti guadagnavano uno sfogo liberatorio. Tutti insieme, uniti, felici, tornavamo bambini. Proprio così, e non vi deve meravigliare affatto. I bambini adulti contagiano la loro gioia, la loro allegria, l’amore per le persone e le cose che stanno loro attorno. 

Come sarebbe possibile tutto questo se i bambini adulti non avessero un angelo custode, ventiquattrore su ventiquattro?