L’idea che la comunità gelese dovesse accendere un cero alla Madonna tutti i 365 giorni dell’anno e restare in adorazione della nascente fabbrica a valle della collina deve avere occupato la mente dei manager dell’industria di Stato in misura inquietante, altrimenti non si spiegherebbe l’irrazionale attitudine ad ignorare, di fatto, ogni vicenda che interessava la città e la sua gente fin dal primo giorno dell’avventura siciliana cominciata a Gela nel lontano 1960.
I tecnocrati e i loro mandanti politici non vedevano, non ascoltavano, non sapevano. E quando erano coinvolti, malgré leur, si voltavano dall’altra parte. Era come se fossero atterrati su un pianeta sconosciuto e non avessero alcuna voglia di sapere dove si trovavano. Per straniarsi hanno alzato un muro virtuale attorno al perimetro dentro il quale muoversi.
Affacciandosi sulla città, era inevitabile che accadesse una volta o l’altra, erano presi dal timore di stare spalancando le porte all’orda dei questuanti. Meglio apparire scorbutici ed ostili, si saranno detti, piuttosto che farsi trascinare nelle querelle cittadine e restarvi intrappolati. Embedded, dunque, imprigionati nella loro torre d’avorio, una specie di apartheid alla rovescia, un isolamento consolatorio malamente vissuto, frenetico, scandito da tempi e comportamenti funzionali al ritmo della fabbrica ed ai suoi bisogni primari.
La “redenzione” del sud non faceva parte delle regole d’ingaggio: il petrolio Gela, scadente e fangoso, serviva per partecipare alla partita energetica internazionale, aveva una missione da compiere, e bisognava solo evitare che costasse più di quanto serviva per estrarlo dalle viscere della terra. La fabbrica era nata per sparigliare i conti degli esperti che giudicavano poco conveniente impiantare trivelle. Una partita da giocare su più campi, nazionale ed internazionale. Una partita in cui la comunità gelese era il convitato di pietra, al netto della forza lavoro, sulla quale Enrico Mattei aveva investito la sua credibilità.
Vista nell’ottica della comunità locale, la prospettiva cambiava totalmente. La fabbrica era lavoro, ma anche un potere estraneo. Ogni parola, ogni decisione, ogni gesto “sbagliato” dei forestieri alla guida della fabbrica diventava oggetto di interminabili discussioni e provocava polemiche e vivaci reazioni.
Ma si mordeva il freno, alla fine. Calati juncu chi passa la china, insomma. A meno che quei signori, inavvicinabili e ben protetti dalle grandi vetrate, non sbagliassero a parlare, perché solo ai siciliani è permesso di dire peste e corna di se stessi, non ai forestieri. Quelli no, non hanno alcun diritto di pontificare. Il “galateo” dei padroni di casa dovevano rispettarlo, sempre e comunque.
Prevalse la credenza che aprire alla comunità locale avrebbe aperto una breccia, e incoraggiato una intrusione negli affari dell’industria, da proteggere ad ogni costo. Non è che si guardassero in cagnesco i forestieri del nord e i nativi, c’era piuttosto una coabitazione sopportata a fatica, perché alla fine gli interessi comuni restavano in vista.
I “liberatori” americani, un quarto di secolo prima dell’industria, erano stati debitamente indottrinati su usi e costumi siciliani, pregi e difetti, con manuali distribuiti alle truppe, testi che rivelano come sia stato preso sul serio il bisogno di farsi apprezzare a prima vista. Oggi i manuali fanno parte della storia dell’Operazione Husky. C’era di tutto in quelle pagine, dai luoghi comuni alle credenze. I manager e i tecnocrati dell’Eni, invece, sapevano ciò che avevano letto sui grandi giornali del nord nei reportage degli inviati che indugiavano sul folklore.
I nuovi “invasori” sbarcati negli anni Sessanta, quindi, non avevano facce, parole, gesti. Se ne stavano per i fatti loro. Chi credevano di essere, dei padreterni? – si domandavano, annoiati, gli intellettuali meno rancorosi. Avrebbero dato lavoro, questo sì, ma non ci si poteva fidare.
Un motivo deve esserci se i marines americani, sbarcati sulle coste gelesi nella notte tra il 9 e il 10 luglio del 1943, vennero accolti con minore diffidenza dei “nordisti” scesi da Milano per rattoppare le pezze al culo ai gelesi. Parlavano una lingua amica i soldati, a metà fra il siciliano e lo slang americano, e distribuivano gomma da masticare, cioccolata, sigarette e generi di prima necessità.
Niente di più, ma quanto basta per essere ricevuti a braccia aperte da gelesi smarriti ed insieme euforici perché uscivano dall’incubo del “nemico” sconosciuto e dei fascisti ben noti cui calare la testa sempre e comunque.
Schizofrenia. Sentirsi migliori e insieme inadeguati, la vecchia tara siciliana. L’adozione di un canale parallelo. Di un perimetro ben definito, disegnato da chi possedeva i titoli, dentro il quale muoversi con cautela per rappresentare i bisogni della clientela. Dentro questo recinto privilegiato il ceto “alto”, quello del potere – locale, provinciale, regionale – era ascoltato, ma non riverito, nella misura dovuta a seconda della rilevanza (o irrilevanza) delle funzioni. L’ufficiale sanitario, che poteva imporre severi regole alla fabbrica, contava di più del sindaco, tanto per fare un esempio. Tappeto rosso e sorrisi smaglianti elargiti a chi stava nella stanza dei bottoni. Il vecchio galateo dello scambio di favori adattato ai bisogni della fabbrica.
L’Eni offriva posti di lavoro, con un occhio al Manuale Cencelli, giusto come usano i potenti, con cautela e parsimonia: dieci a te, che conti poco, cinquanta all’altro che urla, cento a chi può far danno. E ai mammasantissima? Nessun contatto diretto, bastava accontentare il “padrino” politico, il sovrastante che controlla il territorio e ha voce in capitolo nelle istituzioni (amministrazioni locali, governo e Assemblea regionale ecc.). Suscitò apprensione e sorpresa il conflitto, con le armi dell’interrogazione parlamentare fra il deputato Sinesio di Agrigento e il deputato Calogero Volpe eletto nel Nisseno.
Il primo voleva sapere per quale ragione non si indagasse sugli autori degli incendi a danno di un sindacalista della Cisl, destinato a Gela per spezzare il monopolio politico di Calogero Volpe. L’allora ministro dell’Interno, Taviani, rispose che si stava cercando il colpevole proprio tra le fila del sindacato Cisl. Sciabolate fra democristiani di prima linea, con una reputazione da difendere ad ogni costo.
La genesi dell’industria bisognerebbe studiarla a fondo, si aprirebbero scenari seppelliti da silenzi omertosi e saggia cautela. Personaggi ignoti al grande pubblico intessevano fitte trame, di cui si sono perse anche le tracce, che ancora oggi tuttavia ci mettono in confronto con il presente.
Il recente caso Amara-Palamara-Eni, che ha fatto venire allo scoperto un presunto interesse dell’ente di Stato alla nomina di un magistrato affidabile a capo della Procura della Repubblica di Gela. L’avvocato siracusano Amara, sospettato di millanteria, avrebbe avvicinato i burattinai del Csm segnalando un uomo di fiducia. Con successo se le manette non si fossero strette ai polsi del magistrato “suggerito”.
L’episodio rimanda inevitabilmente a mezzo secolo di abbandono di Gela da parte dello Stato, un tempo durante il quale la comunità non ha avuto presidi di sicurezza, istituzioni giudiziarie efficienti e vigilanza con grave nocumento per l’ambiente, la salute e la legalità. Ed è davvero tragico che lo scandalo, vero o presunto, nato dalle rivelazioni, vere o false, di Amara sia esploso, a proposito della Procura di Gela, dopo decenni di sostanziale inerzia.
L’Eni ha affrontato l’impatto con la comunità in cui si insediava con una scandalosa inettitudine e con una perenne sindrome d’assedio. Piuttosto che cercare l’integrazione ha manifestato, attraverso i suoi uomini, una vocazione lobbistica.
Nel primo ventennio dell’industria alcuni episodi, di modesto rilievo invero, ci offrono la conferma dell’isolamento cui la il vertice della fabbrica si è rinchiuso.
Il quartiere residenziale nato ai piedi della collina è “proprietà privata”, non può essere violata da galoppini politici, turbata da manifesti elettorali, da questue di matricole universitarie. La fabbrica non può essere visitata dagli studenti dell’istituto chimico di Gela (fortemente voluto da Enrico Mattei).
Il management tiene il punto su questioni importanti, come la metanizzazione della città, proposta da imprese locali, il costo delle materie prime (polimeri e concimi) depurato del trasporto per gli imprenditori locali. Tutte questioni che avrebbero aperto la fabbrica alla comunità, i cui bisogni non sono mai materia di approfondimento, di dialogo con le istituzioni locali.
La comunità gelese, dal canto suo, ha tanti peccati da farsi perdonare: ha alternato assordanti silenzi a vivaci ostilità, ha marciato sotto le bandiere di improbabili capipopolo, ha dato credito a schieramenti politici spuntati dal nulla con lo scopo di “incendiare” Gela contro l’industria, e assumere il ruolo di paladini dei bisogni locali, ricattando la fabbrica. Non è difficile trovare nomi e cognomi di uomini politici ricompensati con commesse a congiunti e amici.
Eppure le alternative al sottobanco ed ai ricatti c’erano eccome. Il Consorzio per lo sviluppo industriale, nato con l’industria e per l’industria, avrebbe potuto rappresentare un formidabile strumento di integrazione, assumendo un ruolo di rappresentanza di interessi comuni, se avesse avuto la gestione delle infrastrutture pubbliche finanziate dallo Stato. Invece è stato usato come passacarte, una stazione di posta per gli Interventi straordinari del Mezzogiorno e l’Ente Nazionale Idrocarburi. Le risorse, ingenti, investite dallo Stato a Gela per costruire i canali di raffreddamento, la stazione elettrica e il porto isola, vengono assegnate al Consorzio e da esso dirottate all’Anic. Sono di fatto privatizzate. Il caso del porto-isola è esemplare.
Avrebbe potuto essere progettato e usato come struttura portuale pubblica, al servizio del territorio e della navigazione nel Canale di Sicilia, ma è diventato una infrastruttura privata. Non è mai nata un’autorità portuale, il Consorzio non ha ottenuto alcuna competenza sul governo del porto, rimasto saldamente nelle mani dell’Eni, che ne ha fatto uno scalo marittimo petrolifero al servizio della raffineria. La conseguenza è che Gela risulta destinataria di una imponente struttura portuale senza disporre di alcun accesso ai natanti. IL pontile sbarcatoio è crollato, il porto marinaro è interrato, il porto isola appartiene alla fabbrica.
Il Consorzio è stato ibernato per un decennio e non è mai uscito dal cono d’ombra del suo principale azionista. Né la Corte dei Conti né la stessa Cassa per il Mezzogiorno, durante la gestione del presidente Pescatore, ha potuto “scongelare” l’ente ibernato. Per dodici anni, in particolare, la Cassa non ha tirato fuori un soldo per attrezzare la zona industriale, lo scopo per il quale il Consorzio è nato per un buon motivo: negli appositi capitoli di spesa i finanziamenti sono iscritti sotto una voce: “infrastrutture della zona industriale di Gela.”
E’ inutile piangere sul latte versato. Verissimo, ma sapere com’è andata, è una condizione ineludibile se si aspira ad aprire un tavolo di confronto nelle sedi istituzionali. Finora alla miopia dell’Eni si è opposto il quaderno delle lamentele. Quelle solite, il Sud dimenticato. La cenerentola d’Italia. Questioni di cuore che non aprono né porte né finestre.