I rivoluzionari urlavano alla luna e i clan di mafia sparavano

I rivoluzionari urlavano alla luna e i clan di mafia sparavano

Lotta Continua alla fine degli anni sessanta credette che Gela potesse diventare il faro della rivoluzione.

Sbagliò, il sindacato e gli operai di Gela non avevano nulla a che fare con il mondo operaio e sindacale del nord, ma questo non potevano saperlo gli ideologi del movimento venuti da chissà dove, perciò profusero energie e volontà nel tentativo di radicalizzare le grandi vertenze dei lavoratori, trasformandole in una guerra al sistema. La predicazione, pensavano i rivoluzionari, avrebbe redento il Mezzogiorno, partendo proprio da Gela, e si sarebbe saldata sulla linea gotica con le lotte operaie dei compagni settentrionali.

La missione di Lotta Continua nella nuova capitale del Sud industrializzato fu affidata a un gruppo, piuttosto nutrito, di militanti appartenenti alle famiglie più agiate della borghesia industriale settentrionale. 

Figli degeneri o eroi del loro tempo? L’uno e l’altro, forse. 

I giovani del Movimento cercarono dei collegamenti con la realtà locale, facendo pochi proseliti tuttavia, fra i loro coetanei della sinistra. Studiarono la fabbrica e gli effetti della sua invasiva presenza nella comunità locale. Occorreva prima capire, e poi agire, adottando sul campo la migliore strategia per convertire alla rivoluzione le tute blu di Gela.  Avevano ottimismo, passione e fiducia nei loro strumenti di persuasione. 

Gela rappresentava il simbolo del meridionalismo di sinistra, pionieristico, spregiudicato, e sperimentava gli effetti più sgradevoli dell’industrializzazione. Una pericolosa illusione, più pericolosa dell’odiato padronato riconoscibile e facile bersaglio per spiriti animati da grandi tensioni ideali. 

Né la comunità, né il movimento operaio, a Gela senza storia, erano stati coinvolti nel processo di redenzione, subivano gli eventi e ne erano contagiati. L’industria distribuiva stipendi ma si pigliava, in cambio, il mare, i boschi, le coste. Contrariamente alla gente del luogo, che rincorreva il sogno del salario sicuro e del riscatto, e alla sinistra istituzionale e partitica che si nutriva di statalismo, imprenditoria pubblica e affari privati a Roma, cieca sorda e muta alle voci della periferia, covava il malcontento sotto il fuoco degli entusiasmi, mancava l’acqua per lavarsi, i luoghi in cui curarsi, il tribunale e le polizie per avere giustizia, le condotte fognarie, le strade e i servizi nelle periferie urbane, le scuole e tutto il resto, a causa del vertiginoso incremento demografico e di secoli di abbandono e spropositi. 

Ma il fatto che sapessero, che avessero visto giusto, lucidamente, quel che stava accadendo non bastava. Le rivendicazioni sociali non stavano in cima ai pensieri della gente, alla ricerca del lavoro e di una vita dignitosa. Il posto di lavoro, insomma: era questo che volevano uomini e donne gelesi senza niente. Possibilmente un salario uguale alla gente del Nord che godeva di redditi più alti grazie alle cosiddette gabbie salariali. 

Era un tempo di mezzo, quello di Lotta Continua a Gela, durante il quale la sinistra cercava, smarrita, la stella polare, in una delle galassie delle sue intenzioni. La sinistra parlamentare ed istituzionale si allontanava sempre più dai “figli di papà” rivoluzionari “di salotto” e dai radical scic che s’avventuravano nella ricerca della via maestra. 

Lelio Basso, passato dal Psi al Psiup, per citare una voce amica in quel bailamme di linguaggi, negò la validità dell’ipotesi rivoluzionaria perché “la rivoluzione ha bisogno di un terreno culturale ed una chiara linea teorica senza la quale ogni azione pratica rischia di non contare nulla.” Una strategia rivoluzionaria, ammonì, “deve saper legare i due momenti: lo scopo finale, cioè la trasformazione radicale della società, e gli obiettivi intermedi”. Senza questa prospettiva, i partiti della sinistra italiana, vaticinò Basso, avrebbero finito con il privilegiare uno dei due aspetti, “cadendo nel massimalismo o nel riformismo”. Il Pci rimandava ad un futuro imprecisato, un rinvio sine die, la palingenesi dell’Idea. 

Delle parole d’ordine e i discorsi della sinistra, divisa come sempre sui mezzi da mettere in campo per cambiare il sistema, i giovani di Lotta Continua ed i loro seguaci, percepivano un’eco vaga ed indistinta, su cui non risparmiavano critiche e, talvolta, sberleffi.

Le parole dei rivoluzionari immigrati a Gela non arrivarono nei quartieri popolari, trovavano una diga insormontabile nella borghesia della vecchia town. Anche a causa del linguaggio colto, enfatico, carico di inflessioni che ne tradiva la diversità, per certi versi insopportabile. Era la stessa dei manager della fabbrica, che s’erano presi il potere nella città. Presso la sede di Lotta Continua di Gela, Vico San Rocco, lungo Via Cairoli, gli ideologi del Movimento si confrontavano, dibattevano, studiavano, si scontravano, mentre i giorni trascorrevano, vuoti, senza segnare alcuna novità.

Per buona sorte, a placare la loro coscienza, avvistarono un nemico, in carne ed ossa. Finalmente un bersaglio, insomma. Ed il bersaglio erano i giovani di estrema destra, incaricati di fare da argine al proselitismo di Lotta Continua che, supponevano, avrebbe fatto breccia prima o poi nell’ambiente “marginale”, fra gli arrabbiati, gli sprovveduti e i senza niente. Il dialogo con la comunità, il sindacato, i partiti della sinistra, fu affidato ad un ragazzone di Gela, cuore d’oro e saldi principi, Ciuzzo Abela.

Lo scontro con il nemico, Lotta Continua lo cercò in fabbrica, senza trovarlo. Lo trovò nelle piazze di Gela, durante i presidi del volantinaggio. Niente armi né cazzotti, solo sguardi in  cagnesco. Ma il brand maligno di Lotta Continua, divenuta una sorta di stazione di posta verso l’approdo nel brigatismo rosso, aveva fatto del Movimento un sorvegliato speciale delle forze di polizia. I figli di papà erano potenzialmente dei terroristi, bisognava marcarli stretti e usare ogni mezzo di dissuasione. Prevenzione, dunque, e vigilanza, con ogni mezzo.

Ciuzzo Abela, il ragazzone tutto cuore, mite e rispettoso delle leggi, grazie ad una famiglia umile e rispettata dal sindacato, e al suo linguaggio terragno, divenne, a sua insaputa, il più insidioso dei lottacontinuisti. Era l’unico a farsi ascoltare dai giovani di Gela, che frequentavano la movida culturale negli spazi, invero pochi, del dibattito politico. La sua credibilità, era temuta perché guadagnava proseliti. 

Durante un volantinaggio nella piazza principale di Gela, i due gruppi contrapposti, estremisti di destra da una parte, movimentisti di Lotta Continua dall’altra, si trovarono faccia a faccia. I tutori dell’ordine vedevano come fumo negli occhi i figli di papà, i maoisti venuti da chissà dove, e quel ragazzone di Gela, buono come il pane e un po’ claudicante a causa della poliomelite. 

Gli agenti arrivarono, in divisa e senza divisa. Uno di loro, con il grado di maresciallo, e la faccia buona come quella di Ciuzzo Abela, mise le mani in tasca al ragazzone tutto cuore, e trovò un coltellino “di genere vietato”, quanto basta per mettergli le manette. Ciuzzo Abela finì in carcere, ci restò un mese. Inutilmente protestò la sua innocenza, mai aveva posseduto un coltello. Non fu creduto, naturalmente. Uscì dal carcere, zoppicava più di prima ed aveva una faccia spettrale. La terribile esperienza carceraria ne aveva fiaccato la fibra, già provata dalla polio. L’aveva segnato e gli aveva assegnato una nuova missione.

La condizione dei detenuti era intollerabile. Era quello il suo cruccio e la sua nuova missione. “C’è tanto da fare”, ripeteva come un mantra. Se ne andò una settimana dopo. I suoi funerali furono celebrati in cattedrale, ed a dargli l’ultimo saluto ci fu una folla immensa, paragonabile solo a quella che aveva accompagnato circa dieci anni prima il feretro di Peppino Navarra, musicista e assessore comunale socialista, uomo mite e dagli ideali forti, come Ciuzzo. Gela lo onorò e lo rimpianse. Sarebbe stato contento il ragazzone dal cuore d’oro di quella grande folla venuta a rendergli omaggio. Lo avrebbe ripagato di tanti silenzi. 

La sua lezione di vita ha regalato qualcosa a Gela. Grazie a lui, ho avuto anch’io il mio ’68, lieve e timido. Il vento delle nuove libertà ci ha appena accarezzato. Come un raggio di sole, che raggiunge il viso d’improvviso, in una fredda giornata d’inverno. 

Finita l’avventura dei figli di papà, con Lotta Continua, sarebbe cominciata a Gela quella delle paranze dei ragazzini, dei pistoleri in erba, senza arte e senza paura. Anche lori, figli spuri della fabbrica, ma senza ideali, né scopi che meritassero di essere spiegati. Sparavano in faccia al nemico con il sangue freddo di un boss di lungo corso, talvolta senza cogliere la mira, combattevano i mammasantissima che li ostacolavano o si facevano reclutare dai boss in cerca di mercenari. Spietati, cani che non conosceva padrone – dicevano di loro – avrebbero inondato di sangue le strade di Gela. Meglio Lotta Continua, con quei soloni che credevano di avere capito tutto, credendo di potere conquistare i gelesi smarriti e disillusi dalla fabbrica.