Qualche mese fa, abbiamo pubblicato – meglio dire ripubblicato – un servizio del settimanale Oggi del 16 agosto 1956. Riferiva di una storia con protagonisti alcuni sterratori, i quali, impegnati a scavare nell’area destinata ad un fabbricato di civile abitazione, hanno trovato delle monete antiche, e che per eludere il controllo dei loro datori di lavoro avevano escogitato un singolare espediente.
L’articolo ha riscontrato l’interesse dei lettori del Corriere di Gela online (www.corrieredigela.com), risultando tra i più cliccati. In questo numero pubblichiamo un altro servizio apparso sul rotocalco La Settimana Incom illustrata del 29 giugno del 1957, in cui si racconta lo scoprimento delle mura di Caposoprano e dove s’intrecciano le figure di tanti personaggi, tra cui Vincenzo Interlici, lo scropritore delle mura, uno dei simboli della Gela di quegli anni, gli archeologi Adamasteanu, Orlandini e il sovrnitendente dell’epoca Pietro Griffo.
A firmare quel servizio, Giorgio Pillon. Il settimanale Incom era l’edizione cartacea dell’omonimo documentario che veniva proiettato nelle sale cinematografiche italiane nell’intervallo tra i due tempi.
La notizia suscitò un entusiasmo generale: finalmente era stato trovato il teatro greco. Gela, che era stata l’ultimo rifugio di Eschilo, che aveva visto nascere tra le sue mura alcune fra le migliori opere della drammaturgia antica, avrebbe da ora in poi rivaleggiato, anche sul piano turistico con Siracusa e Taormina, e come Siracusa e Taormina – si disse – avrebbe potuto organizzare all’aperto spettacoli classici.
La doccia fredda venne più tardi, quando a Gela accorsero il sovrintendente alle Antichità Pietro Griffo e il professore Biagio Pace, uno dei maggiori studiosi della Sicilia: i ritrovamenti archeologici saltati fuori per caso tra le alte dune di Capo Soprano escludevano chiaramente la esistenza in quel posto di un teatro greco; altro non erano, invece, che frammenti di mura, che blocchi di mattoni cotti al sole. Duemila e cinquecento anni fa dovevano aver rinchiuso a difesa la città, prima che i cartaginesi condotti da Imilcone, sconfiggessero nel 405 a.C. i cinquantamila soldati di Dionisio. Il vincitore, infatti, ordinò che le mura fossero abbattute. Solo settant’anni dopo vennero riedificate.
Quando a Gela si seppe che gli esperti negavano l’esistenza di un qualsiasi teatro greco, ci fu una generale manifestazione di protesta, quasi che la colpa di una simile delusione dovesse essere attribuita al sovrintendente Pietro Griffo e al professore Biagio Pace. E fu allora che per calmare gli animi, Pace decise di tenere un pubblico dibattito nel teatro comunale.
Davanti a una folla imponente, Pace cominciò a parlare, come solo lui sapeva fare. Alla fine i gelesi scoppiarono in un entusiasmo indicibile. Il professore Pace e il sovrintendente Griffo avevano dimostrato che quei mattoni cotti al sole, trovati da Vincenzo Interlici, erano mille volte più importanti di qualsiasi teatro antico. «Qui a Gela» disse allora Pace (eravamo nel 1948) «verranno gli studiosi di mezza Europa. E voi sarete orgogliosi di possedere il più bel muro del mondo»
Biagio Pace fu buon profeta. Il vero “tesoro” di Gela era stato individuato. Non era però quello che Vincenzo Interlici aveva sognato. Interlici è un contadino analfabeta, ormai oltre la sessantina. Da nove anni la lasciato in disparte la vanga e il martello per custodire, di giorno e di notte, il “suo” muro.
Una sera – egli racconta – sognò che qualcuno gli diceva: «Vai a Capo Soprano, appena fuori città, dove tu possiedi, di fronte al mare, poche spanne di sabbia. Fermati qui e scava: troverai un tesoro», Interlici (è sempre lui che racconta) si svegliò di soprassalto, perché la speranza di trovare un tesoro è, si può dire, innata tra i contadini siciliani, usi a “sentire” sotto l’aratro l’esistenza di tombe greche o romane e soliti a trovare frammenti di vasi antichi a cui peraltro essi non attribuiscono importanza alcuna.
Interlici non attese l’alba. Prese piccone e zappa e si recò a Capo Soprano. Il giorno prima una violenza mareggiata, accompagnata da un fortissimo maestrale, aveva spazzato qua e là le dune. Sotto la sabbia era possibile vedere qualcosa che somigliava ad un’antica costruzione. Tombe o nascondiglio del tesoro? Interlici scavò per molte ore. Alla fine si sedette sconsolato: il piccone e la zappa avevano messo in luce un tratto di muro che chissà mai dove continuava.
La notizia venne, qualche giorno dopo, segnalata alla Sovrintendenza alle Antichità di Agrigento. Che fosse quello il teatro dove Eschilo aveva fatto rappresentare “I Persiani”, “I sette a Tebe”, “Le supplici”? Le supposizioni di tutti si dimostrarono errate, ma per Gela fu una vera fortuna. Un teatro greco non avrebbe forse aggiunto molto alla città. Invece le mura di Interlici dovevano fare di questo che è il maggiore centro della provincia di Caltanissetta, una tra le mete più favorite dai turisti.
Ciò accadeva nove anni fa. Però pochi avrebbero saputo prevedere gli sviluppi che le ricerche archeologiche avrebbero avuto nel territorio, prima che il sovrintendente Griffo non mandasse da queste parti “don Bastiano”. Almeno così lo cominciarono tutti. Era un archeologo rumeno. Il suo vero nome era Dinu Adamesteanu, ma per i gelesi fu subito “don Bastiano”. Fuggito dalla sua patria all’arrivo dei russi era giunto come apolide in Italia. E qui s’era incontrato con Biagio Pace.
Adamesteanu ebbe dalle autorità locali, dall’Ente turismo e dalla Regione i primi aiuti. Così poté assumere qualche operaio che gli si dimostrò subito devoto. Però si trattava di elementi non specializzati, addirittura analfabeti. L’archeologo pensò, a ragione, che per riuscire a far comprendere ai suoi uomini l’importanza delle ricerche, bisognava non soltanto parlare loro della antichissima e gloriosa storia di Gela, delle sue lotte contro i sicelioti e cartaginesi, ma insegnare loro anche a leggere e a scrivere. Oggi gli operai di Dinu Adamesteanu sanno leggere, scrivere e persino riconoscere, a prima vista, una ceramica del VI secolo da un frammento vascolare del II secolo. Ma soprattutto sanno trasformarsi in “detectives” intelligenti e scrupolosi.
L’occasione si presentò due anni fa, per caso. Un giorno “don Bastiano” stava centellinando il suo solito caffè in un locale pubblico, quando qualcuno gli rivolse questa singolare domanda: «Perché le monete antiche di Gela recano su un lato una testa umana racchiusa da una strana corona di pesci?». Adamesteanu capì che chi gli stava parlando doveva aver trovato qualcosa perché monete del genere sono rarissime.
Cercò, con opportune domande, di scoprire la verità ma finì col mettere in sospetto il suo interlocutore. All’archeologo non sarebbe rimasta altra via che far conoscere i suoi sospetti ai carabinieri. Ma con quali risultati? Meglio tentare altra strada. Fu così che “don Bastiano” organizzò i suoi “detectives” privati. Raccontò l’episodio ai suoi fedelissimi operai, poi disse loro: «Cercate, sono sicuro che troverete qualche decina di monete importantissime”.
Tre giorni dopo i suoi “ detectives” gli portavano sul tavolo di lavoro le prime monete. La polizia e i carabinieri fecero il resto. Ben dieci chili di monete d’argento del VI, V e IV secolo furono in tal modo recuperate prima che finissero sul mercato clandestino.
Giorgio Pillon (parte 1ª - continua)