Le luci dei lampioni di via Giovanni Verga, a ridosso del vecchio carcere mandamentale, già flebili, divennero più fioche del previsto, poco dopo le 20.30.
Come a voler spegnersi debolmente. E definitivamente, lasciando spazio ai lampeggianti delle auto dei Carabinieri. Killer della “Stidda”, lo aspettarono sotto casa. E spararono più colpi di pistola. Un remake di brigatista memoria: ucciderne uno, per educarne cento. Gaetano Giordano (nella foto), 55 anni, titolare delle profumerie omonime, doveva essere eliminato, per essersi ribellato al pizzo.
Una delle pochissime mosche bianche presenti in città. A Gela tutti pagavano, a tappeto, foraggiando le casse criminali. Lui e pochi altri dissero di no, scatenando la reazione malefica e famelica degli aguzzini. Il suo nome fu estratto a sorte, durante la lotteria del crimine organizzato. Il commerciante aveva posteggiato sotto casa ed era appena sceso dalla sua Fiat Panda, assieme al figlio Massimo, quando fu raggiunto da una raffica di colpi, sparati senza alcuna pietà. In quell’istante, in una pozza di sangue, si spense anche l’ultima speranza di chi non voleva sottoporsi al ricatto mafioso.
Era il 10 novembre del 1992. Ad oggi, sono passati 28 anni da quel tragico evento e chi lo ricorda nei minimi particolari è il collega Nino Miceli, anche lui come Giordano, gelese d’adozione. Per l'esattezza, lo ricorda “il fu” Nino Miceli. Si, perché il vocabolo del passato remoto del verbo essere, non è altro che la logica conseguenza per quello che ha subito: cambio d’identità per ovvie e motivate ragioni di sicurezza, dopo avere fatto arrestare e condannare i suoi taglieggiatori. Era titolare della concessionaria Lancia di via Venezia. La sua attività commerciale, subì due attentati incendiari. Chi scrive, ricorda come fosse ieri, la successiva presenza costante dei militari dell’Esercito, fucile imbracciato, dinnanzi al locale, al fine di reprimere qualsiasi altra forma di violenza. Ma, contestualmente, si reprimeva anche la presenza di possibili clienti.
«Quando ho cominciato a denunciare i soprusi – dice Miceli – facendo nomi e cognomi, la città mi ha voltato le spalle».
– Come e quando ha saputo dell’omicidio di Gaetano Giordano?
«È un giorno ancora vivissimo nella mia memoria. Avevo chiuso la concessionaria e, sotto scorta, mi ero recato in corso Vittorio Emanuele, presso la sede della Confcommercio. Dovevamo discutere di racket e del coinvolgimento dei commercianti. Eravamo presenti in sei/sette e stavamo per cominciare, quando ad un tratto squillò il telefono. Ci fu un improvviso silenzio. Rispose il presidente, il compianto Rosario Alessi. Lo vedemmo impallidire, posò la cornetta e ci disse: “Hanno sparato a Gaetano Giordano!” Corremmo subito in ospedale».
– Che sentimento ha provato?
«Dolore per la perdita, rabbia per la vigliaccheria dei mafiosi, frustrazione per non essere capace di reagire compatti al fenomeno mafioso. Un esempio per tutti: si chiedeva ai commercianti di esporre una locandina contro la mafia e ti rispondevano che non era il caso».
– Con l’uccisione di Giordano, si era giunti ad un punto di non ritorno?
«ll sacrificio di Gaetano, avrebbe dovuto essere lo specchio in cui guardarci e renderci conto che si era soffocati dai mafiosi; la base sulla quale prendere coscienza del fenomeno e reagire ma non lo é stato. Un'occasione mancata come il ritrovamento del libro mastro a Scavone, in cui erano segnati i nomi dei commercianti che pagavano il pizzo e i relativi importi».
– Gela, dopo l’omicidio Giordano, scese in piazza per gridare il proprio no alla mafia. La leggemmo come una forma di ribellione.
«Più che altro, un atto dovuto a una vittima innocente, una reazione emotiva ad una barbara uccisione. Ricordo l'immensa partecipazione ai funerali che si tennero in Chiesa Madre».
– Giordano le aveva mai confidato delle richieste di pizzo a cui era stato sottomesso?
«Il mio rapporto con Giordano era di superficiale conoscenza, non c'erano rapporti tali da avere confidenze reciproche di questa natura».
– In pochissimi in quegli anni denunciavano e subivano. Perché?
«La denuncia nasce da un rapporto di fiducia tra il cittadino e lo Stato. Se manca il rapporto fiduciario, non c'è denuncia».
– Ma lo Stato in quegli anni, dov’era?
«A Gela in quegli anni non c'era Stato. Nella migliore delle ipotesi, non si valutava quanto di grave stava accadendo, come se tutto fosse contaminato. Chi per funzione avrebbe dovuto incarnare lo Stato e mi riferisco alla politica, alle forze dell'ordine e ai vari apparati istituzionali, non erano affidabili e dunque i cittadini non si fidavano. Vi erano singoli uomini impegnatissimi nel contrasto al sistema mafioso ma mancava lo Stato, quello con la s maiuscola!».
– Dopo l’uccisione di Giordano, ha mai pensato che potesse toccare anche a lei?
«Si. L'ho pensato. E lo pensò anche Mario Mettifogo, al vertice dei Carabinieri di Gela. Pensi che la Procura di Caltanissetta, dopo le dichiarazioni di un esponente mafioso, valutò una mia deposizione in vita, attraverso un incidente probatorio...».
– Lei, dopo le denunce e i successivi arresti degli aguzzini, è stato costretto ad abbandonare Gela. Come si è sentito quando le forze dell’ordine le hanno comunicato di andare via?
«Lasciare il nido é sempre traumatico anche quando hai una prospettiva diversa che ti aspetta. Lasciare perché sei esiliato, é terribile. Si entra in un tunnel dove non c'è futuro, perdi il valore di te stesso, non sai più chi sei"..
– E cosa ha detto alla famiglia?
«Ho parlato solo con mia moglie. Le ho spiegato che non c'era da fare una scelta: bisognava andare. Punto!».
– Tornasse indietro, rifarebbe quello che ha fatto contro la mafia?
«Eternamente si. La mia libertà non ha prezzo».
– Subito dopo l’omicidio Giordano, si tentò di costituire l’associazione antiracket a Gela. Progetto fallito miseramente. Perché?
«La domanda é posta alla persona sbagliata. Ricordo però posizioni nebulose e a me incomprensibili...».
– Chi era per lei Gaetano Giordano?
«Un abile commerciante con la fortuna di avere al fianco una moglie come Franca Evangelista».
– Nel luogo in cui fu ucciso Giordano, non c’è alcun simbolo che lo ricordi: una targa, una stele. Nulla…
«Se l'istituzione comunale non ha mai pensato ad una targa che lo ricordi, dipende da una cultura miope che guarda a pochi centimetri da se e non conosce il valore della propria storia. Una targa significherebbe ricordare un simbolo di libertà, avere memoria. Essere un monito per tutti, perché ciò che è accaduto non si ripeta. Mai».
– ll procuratore di Gela, Fernando Asaro, qualche settimana fa, ad una mia precisa domanda, ha riferito che dal suo insediamento (2016) ad oggi, non ha mai visto la fila in Procura di commercianti ed imprenditori che denunciano, nonostante le continue adesioni alla stessa Antiracket locale. Come legge questo fenomeno?
«Tempo addietro, ricevo una telefonata. E’ Massimo Giordano. Mi invita a Gela ad una manifestazione in ricordo del padre. Accetto con piacere ed altrettanta tristezza. Tornare indietro nel tempo, a quella sera, allo squillo del telefono, a quell'annuncio "hanno sparato a Gaetano Giordano", resta doloroso anche dopo un quarto di secolo. L'iniziativa si svolge a Villa Peretti. Ci sono tutti: autorità locali e provinciali, il Prefetto, il Capo della Polizia. Tano Grasso, attuale presidente onorario della Fai, ci riporta indietro nel tempo in memoria di Giordano. Un tumulto di sentimenti, ricordi pieni di tristezza. Poi, una clip stonata per sfacciata autoreferenzialità, inneggia al lavoro svolto dall'associazione Antiracket, fino a quando una voce riporta alla verità nuda e cruda: "i commercianti gelesi in dibattimento balbettano...". Nessuno, in quella sala affollata, vuole cogliere questa verità e, come spesso accade, tutto diventa passerella. La risposta fornita ultimamente dal procuratore Asaro riprende quel mio pensiero e mette in risalto un elemento: dal 2016, mai ricevuta una denuncia per fatti estorsivi o usura. Ma quello che mi colpisce di più, è quando lo stesso procuratore sottolinea che "l'associazione Antiracket dovrebbe operare in profondità". Quest'ultima dichiarazione, dovrebbe far riflettere chi opera all'interno dell'associazione e ritengo – aggiunge Miceli – voglia dire che non basta avere un alto numero di iscritti, non basta metaforicamente carteggiare il legno in superficie ma é necessario tagliare ed incidere e tutto questo si ottiene con le denunce. Se queste mancano, sono solo parole. Avere un alto numero di iscritti é sinonimo di nulla. Un'associazione antiracket non si valuta alla stregua di un'associazione di categoria; si valuta sul peso specifico degli iscritti. Troppe volte abbiamo visto predicatori dell'antimafia che chiedono il pizzo o mafiosi che creano associazioni antimafia e Osservatori sulla legalità. Non si dimentichi che l'iscrizione all'Antiracket può rappresentare una buona copertura e anche motivo di referenzialità...».
– Gela è cambiata secondo lei sul fronte antiracket?
«Non ho dati che mi permettono di fare valutazioni oggi sul fenomeno. Sono però certo che la mafia, purtroppo, non rinuncia al controllo del territorio e si insinua ovunque».
– Cosa si sente di dire alle nuove generazioni, facilmente attratti dai soldi facili e dunque appetibili dalla criminalità?
«Suggerisco di studiare. La conoscenza apre le menti alle soluzioni più appropriate per una vita migliore».
– Se si trovasse difronte a coloro i quali le hanno stravolto la vita, cosa gli direbbe?
«Chiederei se per loro ne è valsa la pena».
– Hai mai avuto paura di possibili ritorsioni?
«Sono fatalista. La mia vita non è mai stata condizionata da possibili ritorsioni. Ora come allora».
– Ha mai pensato di tornare e di riprendere da dove è stato costretto a lasciare?
«Si, per un certo periodo il cuore mi ha portato a fare questo sogno ma per fortuna ho anche il cervello. Alla città ho donato, anni addietro, una scultura come dimostrazione di affetto. E di bene incondizionato. Lo stesso che avrei voluto ricevere, dopo le mie denunce».
Giuseppe D'Onchia