Ho abitato Gela per sei giorni, uno dei più lunghi soggiorni da quando ho lasciato la mia città – quasi quaranta anni fa – e ogni cosa che vedo è intrisa della memoria del tempo vissuto qui. Non riesco a sfuggire al richiamo dei ricordi; sono un frangiflutti alto e potente sul quale s’infrange la realtà affollata e tumultuosa.
La Gela di oggi non vuole essere seppellita dalla memoria, non si fa ignorare, pretende rispetto, considerazione, attenzione. Aspira ad essere capita. Ed è nel fiume dei ricordi che affluiscono i segni di una città diversa. Qui sull’alveo della confluenza che osservo smarrito, confuso, curioso di ogni cosa che scopro.
Le ciminiere non fumano più, la grande fabbrica è immersa nel silenzio. Un sepolcro imbiancato. Nella stazione ferroviaria, elegante e luminosa, non passano i treni, il porto industriale giace solitario in un deserto di navi, un grande parcheggio di sette piani non ospita autovetture. Tutto sembra congiurare a favore del declino, della città clinicamente morta, tenuta in vita in stato vegetativo. In coma, dunque, e in attesa che una mano pietosa stacchi la spina.
Ma se mi facessi sopraffare da questa realtà, dovrei indossare gli abiti del lutto, esprimere il cordoglio di chi ha vissuto in una città popolata da fiabe, leggende, storie. Chi meglio di me potrebbe farlo, a causa del mio abbandono? Dovrei lasciarmi trasportare dal fiume delle nostalgie: le lampare del golfo, il bosco di Bulala, i resti dell’antica civiltà greca, la ricchezza di una storia di pionieri, artisti, poeti e drammaturghi, gastronomi e conquistatori.
Il tempo della mia adolescenza era popolato da Eschilo e Quasimodo, i tesori ritrovati scavando, le “truvature” che regalarono benessere ad alcuni fortunati cacciatori di reliquie. Immanisque Gela nomine fluminis dicta, scrive Virgilio (fu immane Gela o il suo fiume?).
C’era anche la battaglia di Gela durante gli anni del liceo, combattuta sulla pianura dalla Divisione Livorno, dopo lo sbarco degli Alleati sulle coste. E la città dei cretari in contrada Betlemme, il village magique creato dai nudisti francesi fra i faggi di Bulala, sorvegliato dai poliziotti e sognato giorno e notte da noi adolescenti.
Come togliersi dagli occhi le dune che “camminano”, le spiagge e il mare più generoso del mondo? Rischio di farmi seppellire da ciò che non c’è più, ignorando la città che ho sotto gli occhi. La Gela industriale, con la sua metastasi abusiva e le tute blu, è stata cancellata dalla città dei commerci, operosa ed audace, dalla città dell’happy hours. Ristoranti, discoteche, movide, shopping. Tanti giovani sono andati via, ma tanti altri hanno alzato l’ingegno e messo in piedi qualcosa: un bar etnico, un fast food, una vetrina “informatica”. Metamorfosi stravagante e tumultuosa, che lascia spazio anche ai sospetti (circolano molti soldi, da dove arrivano?).
C’è anche chi ha fatto le cose in grande. Qualche giorno fa è stato inaugurato l’anfiteatro realizzato da un capitano d’industria, Luigi Greca, a ridosso del Lungomare, ispirandosi ai costumi greci dell’antichità. Ha proposto, per il debutto, il Prometheus di Eschilo, il drammaturgo che operò e morì a Gela (la leggenda vuole che sia stato abbattuto da una tartaruga caduta da chissà dove sul suo capo).
Il teatro greco che gli archeologi cercano da settanta anni invano è nato grazie ad un imprenditore visionario, che vuole lasciare un’impronta nella storia della città. E’ lui, forse inconsapevolmente, che mette d’accordo quelli che attribuiscono all’industria tutti i mali del mondo, e gli altri che la giudicano la grande ”truvatura”, la fine della povertà e dell’emigrazione.
Per quanto mi riguarda, ho ancora le idee confuse. Non possiedo una bilancia sulla quale misurare il bene e il male della storia di Gela. Guardo comunque pieno di speranza alla città, che senza ciminiere rinasce delle sue ceneri.