Negli anni ottanta il direttore del Giornale di Sicilia, Fausto De Luca, giornalista raffinato cresciuto nel club esclusivo di Eugenio Scalfari, dedicò un editoriale alla scomparsa di una palma, divelta senza buone ragioni, dal marciapiede vicino alla sede del quotidiano a Palermo.
Elegante e ben congegnato, l’editoriale esprimeva il profondo rammarico di un intellettuale innamorato della natura e del decoro urbano e il dispiacere di una città governata senza passione civile. Non ricordo le sue argomentazioni e la qualità del suo dissenso, ma ricordo una circostanza: l’abbattimento della palma costituiva l’icona del declino culturale di Palermo, la città che anche negli anni bui era riuscita a splendere di luce propria rispetto alle altre capitali europee.
Non compresi allora, credevo che si fosse trattato della cultura un po’ snob ed esclusiva e salottiera di De Luca; i problemi di Palermo erano ben altri: la mafia toglieva il fiato alla comunità, impoveriva la sua economia, dava spazio alla prepotenza ed all’arroganza, inquinava la politica.
Credetti che dedicare un editoriale alla palma divelta fosse un lusso e, forse, il segno di una incomprensione. Sbagliavo clamorosamente, come avrei dovuto ammettere grazie anche a Jonny Stecchino, che nella pellicola di Roberto Benigni, scoprì che i veri guai di Palermo erano il traffico, l’acqua carente e i furti con destrezza di banana compiuti nei negozi di ortofrutta. Si possono affrontare guai seri, servendosi di ironia e di una mente aperta e lungimirante.
L’aneddoto che ho raccontato mi permette di affrontare senza enfasi né sensi di colpa qualcosa che mi sta a cuore e riguarda Gela, città dalla quale mi sono allontanato nel 1978 e che frequento più che in passato da qualche tempo a questa parte, grazie anche ad alcune iniziative editoriali ed agli affetti familiari.
Ho trascorso larga parte della mia vita scolastica nel convitto Pignatelli, sede del Liceo Classico Eschilo. Cinque anni, due al ginnasio e tre al liceo. Vecchie mura, soffitti alti, grande decoro, una storia antica, maestri e compagni indimenticabili. A questi cinque anni ne aggiungo un altro, da giovane docente. Insomma il Convitto Pignatelli è stata la mia seconda casa, e non può sorprendere che mi sia affezionato ad esso e pretenda grande attenzione.
Il Convitto Pignatelli ha rischiato di trasformarsi in un rudere, ma grazie ad una dotazione finanziaria ragionevole e ad un lampo di generosità della Regione siciliana (assessore ai Beni culturali il gelese Salvatore Morinello) è stato ristrutturato e reso fruibile. Da allora, a mio parere, il Convitto ha vissuto d’inedia, o meglio: non s’è trovato il modo giusto di offrirgli un compito che fosse all’altezza del suo passato.
Il peggio è arrivato ora. Del Convitto si è riusciti a fare scempio. In che modo? La facciata esterna è stata corredata di tabelle larghe quanto le lenzuola dei nostri nonni, realizzate con plastica, sulle quali ci sono scritte che ci informano sull’uso, anzi il cattivo uso del Convitto. Non mi soffermo nel dettaglio per carità di patria. C’è dell’altro.
L’intero marciapiede e una parte consistente della carreggiata – siamo sul Corso Salvatore Aldisio – è stato offerto in condominio ad un negoziante di ortofrutta, che se n’è appropriato senza darsi pensiero dello indecente stato di lerciume cui l’ha ridotto. La merce viene esposta anche sul marciapiede che si affaccia difronte al convitto, nel quale il fruttarolo mantiene la sua roba bene in vista. A conti fatti, dunque, due marciapiedi occupati e l’ingresso al Convitto Pignatelli oscurato.
Ogni volta che attraverso quel tratto di Corso Aldisio sento una voglia irresistibile di comportarmi come Gesù al mercato, armarmi di bastone e distruggere tutto. Il Convitto non è il tempio di Dio, ma è pur sempre il tempio della cultura di Gela. Se i ragazzi imbrattano le opere d’arte, perché dovrei sentirmi in colpa nel pensare di procurarmi un bastone e distruggere frutta e verdura incolpevoli? Ma è solo un pensiero, un cattivo pensiero. Farsi giustizia da sé è una strada senza ritorno, procura guai, specie se il “nemico” è attrezzato ed abituato a farsi largo con la la prepotenza.
Chiedo perciò a chi mi sta accanto, quando la crisi d’ira stravolge il viso, in che modo si può affrontare la questione: com’è possibile che accada tutto questo e che lo scempio non sia stato in qualche modo cancellato. La risposta è surreale: mancano i vigili urbani. Dovrei accettare che la disgustosa disattenzione, tanta arroganza impunita, tanto abbandono, possa essere spiegato e magari assolto con l’assenza di tutori dell’ordine?
Basterebbe che i vigili urbani abbandonassero le scrivanie per una trentina di minuti, magari protetti da poliziotti in assetto anti-guerriglia, per cancellare lo scempio, l’appropriazione indebita di suolo pubblico, il lerciume su marciapiedi e carreggiate, e soprattutto la strafottenza e la prepotenza dei padrini della città, Sì, padrini e padroni, a giudicare dalla tolleranza che viene loro concessa,
E’ così semplice? No, non lo è per una serie di ragioni, alcune delle quali chiamano tutti alle responsabilità. L’icona dell’abbandono disgustoso e della prepotenza tollerata riflette una generale sensibilità. I clienti del fruttarolo onnipresente, che fa quello che vuole, sono molti di più rispetto a quei cittadini che esprimono la loro indignazione. Se gli amministratori non vedono, non ascoltano e non sentono umori ed odori, vuol dire che nessuno protesta né si lamenta.
Aveva dunque ragione, eccome, Stefano De Luca, a segnalare la scomparsa della palma per una disposizione insensata degli amministratori: era la testimonianza di un declino culturale. Battersi il petto al momento giusto e per colpe reali, veniali o meno non importa, è un buon farmaco.
Senza eccessi, naturalmente. Non si può addebitare ai cittadini di Gela, per fare un solo esempio, se non si sono accorti e non hanno manifestato la loro preoccupazione, quando hanno visto sulla crosta degli alberi le strisce bianche che annunciavano il degrado ambientale irreversibile. Come avrebbero potuto sapere e capire? In quel caso le responsabilità stanno solo in alto, dove si sa quel che sta avvenendo.
Il Convitto che diviene icona della mala amministrazione, invece, interpella, seppur a livelli diversi di responsabilità, le autorità locali ed i cittadini, che osservano lo scempio e tacciono o si accontentano della ipocrita giustificazione di chi ha il compito di far cessare il degrado e cacciare i padrini.