Una società asiatica vuole spendere 3 miliardi a Gela, dalla capitale rispondono perché non Genova o Civitavecchia?
La portualità nella Gela del dopo “pet-coke” è un'opportunità unica, sia sul piano economico che occupazionale. Lo hanno capito a Ravenna e Livorno, ad esempio, solo per citare due città con raffinerie ancora attive, non dovrebbe essere difficile capirlo, almeno a parole anche dalle nostre parti, laddove ciò che non è mai agevole, invece, è passare dalle parole ai fatti.
Non è stato affatto un caso che l'argomento abbia letteralmente dominato il dibattito nell'ultima seduta del consiglio comunale, nonostante l'unico punto all'ordine del giorno fosse il "recovery plan", che nulla aveva a che vedere con l'hub di cui si è parlato in quella videoconferenza del civico consesso e di cui si continua a parlare, sottovoce, ancora.
Giacché trattasi di un progetto che non può essere inserito nel recovery plan. Ma, la cosa più importante, è che trattasi di un progetto che non ha alcuna ambizione o finalità di essere inserito in quello o altri portafogli relativi a finanziamenti pubblici. Trattasi, infatti, di un finanziamento privato.
Una compagnia che ha soldi da spendere, in parole povere, chiede di poter investire a Gela e creare un hub portuale con terminal container. Lo farebbe nei suoi interessi, ovviamente, ma con ricadute vantaggiose per il territorio. La società è asiatica e mette sul piatto oltre 3 miliardi di euro di investimento, per un hub da costruire al largo, nel mare aperto oltre il porto isola attuale, dove la profondità dell’acqua arriva a 20 metri.
Ovviamente a Roma hanno risposto che il progetto è davvero interessante, ma con un’avvertenza: non facciamolo a Gela, ma a Genova o magari Civitavecchia. Ci sorprende una tale risposta? Per niente. Ragioni di “geopolitica” – che non stiamo in questa sede a disquisire per non tediare l'incolpevole lettore – ne stanno alla base.
Invero, dietro queste ragioni, per lo più pretestuose, c'è solo la prosecuzione per larghi tratti di un disegno nato all'indomani dell'unità d'Italia, quando prima di creare e plasmare le istituzioni monarchiche a cui succedettero le attuali repubblicane, si è dovuto creare un’economia nazionale e quindi un “mercato unito”, che non poteva premiare certo gli sconfitti, ma le razzie ed i saccheggi dei vincitori. Chiaro, no?
A sorpresa, però, a rispondere picche è stata proprio il colosso asiatico, evidentemente interessato alle rotte commerciali che passano per il canale di Sicilia ed assolutamente indifferente alla geopolitica romana. I paperoni asiatici hanno replicato, cioè, che l'unico punto italiano di loro interesse è Gela. Ed è la priorità. In caso contrario busseranno in Marocco.
Insomma, senza girarci troppo intorno, un colosso del commercio marittimo e della logistica internazionale vuole investire oltre 3 miliardi di euro, esclusivamente a Gela, in Italia. Ovvero, in alternativa, in Marocco. Il progetto prevede un hub portuale, vale a dire uno snodo per carico e scarico merci con container.
Ovviamente, eni avrebbe riservato il suo spazio per le proprie petroliere, anzi ne potrebbe approfittare e trovare finalmente utile sul piano remunerativo, creare uno stoccaggio del gnl, con tanto di postazione per il rifornimento delle grandi navi, considerato che dal 2025 quest’ultime dovranno essere alimentate a gas.
Cosa faranno a Roma? Decideranno nelle stanze dei bottoni di avallare un progetto che la logica, specie di questi tempi di vacche magre, consiglierebbe? Cosa faranno i politici meridionali, siciliani e gelesi in particolare? Si batteranno per il territorio, disposti anche a mettersi di traverso contro la volontà dei rispettivi partiti padroni?
O lasceranno cadere tutto nell'oblio, come se questa offerta non fosse mai pervenuta, perché non solo il sud non va aiutato, rinviando progetti, procrastinando iter, fino a derubricarli dall'agenda degli investimenti pubblici per le infrastrutture. Ma va addirittura penalizzato, rifiutando investimenti privati e quindi a costo zero per lo Stato. E’ il gap infrastrutturale tra “Nord” e “Sud”, con tanto di baricentro capitolino, che non va assolutamente colmato, altrimenti si rischierebbe di rivoltare financo lo “stivale”, con la scusa del calzino.