Faremmo un torto a noi stessi se accompagnassimo con ipocrita stupore, misto a tristezza, la lettura del reportage sulle malformazioni neonatali, contenuto nel periodico nazionale, l’Espresso, già in edicola da questa settimana.
Il tema, infatti, è ben noto ai gelesi e diversi sono stati gli articoli locali che hanno sollevato la questione. Notizie diffuse a macchia di leopardo, finestre di cronaca isolate ed episodiche come i fatti che sembravano raccontare, senza mai metterli assieme e coordinarli con un’analisi dei dati, in una vera inchiesta. Ciò ha permesso che una cappa di silenzio avvolgesse questa problematica. In questo, l’Espresso ha ragione da vendere e per tale via, dunque, subiamo per certi versi un nuovo schiaffo dalla rivista specializzata de “La Repubblica”, tornata sull’argomento dopo lo “scoop” di qualche tempo fa.
In effetti c'è anche una notizia, intesa letteralmente come “novità”, nell’articolo: finalmente c'è un numero che quantifica i nati con malformazioni congenite. Sono 445 in meno di 15 anni, dal 2003 al 2015, con la media di 1 ogni 166 abitanti. Una media terribile, senza eguali in Italia ed Europa, con la solita, amara, beffa che accompagna il danno: l'assoluta mancanza di strutture adeguate ed idonee ad affrontare dapprima il dolore e poi il problema; l'Utin fantasma, riconosciuta dalla Regione ma mai attivata dall'Asp; una norma per le strutture ospedaliere ricadenti in aree ad alto rischio industriale rimasta carta straccia; viaggi della speranza onerosi sul piano delle energie umane oltre che delle risorse economiche e via discorrendo.
Famiglie prima traumatizzate, poi lasciate da sole ed abbandonate al proprio destino. In tante sono andate via. Ad impressionare è la varietà delle malformazioni, benché quelle con eccessi significativi sul piano statistico sono le ipospadie (malformazioni organi genitali) che sono rare, nonché le malformazioni dell'apparato urinario più in generale. Senza dimenticare malformazioni permanenti con cui conviverci come la schiena bifida, che a volte è pure accompagnata da ulteriori patologie come cecità ed altre.
«Giusto per non fare un torto alla storia e non distorcere anche involontariamente la memoria – esordisce il pediatra Antonio Rinciani, da noi contattato – ricordo che quando è iniziata la nostra battaglia, all'incirca 20 anni fa, l'obiettivo assieme alle famiglie interessate è stato sempre quello di smuovere le coscienze in primis, dare uno scossone etico alla classe politica in secondo luogo e richiamare infine alle proprie responsabilità l'Eni, senza chiedere alla stessa un ristoro economico, in danaro, perché col passare del tempo i soldi finiscono, ma chiedendo un qualcosa di permanente, stabile e duraturo, affinché anche le altre famiglie che sarebbero state coinvolte, non sarebbero rimaste sole, senza guida e punti di riferimento.
Abbiamo da subito chiesto che ci venisse riconosciuto, cioè, un istituto di ricovero e cura, con carattere scientifico. Un istituto, insomma, di eccellenza che potesse accogliere, curare ed al contempo studiare i casi, allo scopo di provare ad interrompere quella catena di patologie connesse all'industrializzazione.
Gli studi a cui – ha proseguito il dott. Rinciani – ho sempre fatto riferimento, sono quelli di università prestigiose, come Harward ad esempio, nei quali si dimostrava, attraverso l'analisi scientifica retrospettiva, vale a dire analizzando la popolazione nata trent’anni prima la manifestazione di patologie come quelle neurodegenerative, che le loro mamme erano vissute in ambienti che le esponevano a sostanze chimiche, puntualmente richiamate in apposito elenco. Per cui, fermo restando la competenza dei tribunali a decidere, noi abbiamo sempre rifiutato l'idea di monetizzare il danno. Ci è sembrato un ulteriore sfregio. La nostra richiesta è sempre stata quella e non è mai cambiata, che vuole dotare questa città di un servizio di eccellenza.
Già all'epoca in cui Crocetta era sindaco, da consigliere comunale e nella veste di consulente del primo cittadino in questa materia, tra interpellanze parlamentari, tavoli ministeriali ed interministeriali, la sola ed unica esigenza che avanzai fu quella di un istituto di ricovero e cura in modo peraltro da arrestare e possibilmente invertire la migrazione sanitaria. Sottoscrivo quanto dichiarato dalle mamme coraggio nell'articolo – ha concluso il pediatra gelese – specie quando alla malattia, unitamente alla carenza di strutture, si mette davvero il dito nella piaga nell'evidenziare la solitudine dettata dall'indifferenza, dovuta alla nostra incapacità a creare una "sensibilità" in termini collettivi».
Un aspetto quest'ultimo, accanto ad un paio d’altri, che viene rimarcato anche da un'esponente storica dell'associazionismo gelese, portavoce dell'associazione “Arci Gela”, nonché del “Coordinamento delle donne”, recentemente fra tre coordinatori del comitato “Sos Vittorio Emanuele III”, Luciana Carfì: «ad accrescere la gravità del tema in oggetto - sottolinea - ci sono gli episodi, numerosissimi, ma non inclusi in alcuna casistica, relativi alle gravidanze interrotte per anomalie e/o malformazioni fetali. Non si capisce il perché mancano i dati e non li analizza nessuno. Noi, in quanto associazione ne siamo a conoscenza, ma lo sono ancor di più, con tutta evidenza, i ginecologi ad esempio.
Come “coordinamento delle donne”, ci siamo intestati questa battaglia, accanto ad altre, riuscendo ad ottenere importanti passi in avanti, ma nel momento in cui il territorio doveva unirsi e persino “utilizzarci” per raggiungere un obiettivo comune, abbiamo avvertito un forte senso di isolamento che ci ha costretto a virare ad altre forme rivendicative, unendoci nello sforzo comune ad altre associazioni, anche per battaglie “minori”. La lezione che abbiamo imparato – continua – è che battaglie importanti per il territorio non possono essere condotte solo da una o due associazioni.
E' essenziale che l'intero territorio si intesti la battaglia ed affinché ciò possa accadere, è fondamentale un apporto delle componenti politiche, sindacali ed istituzionali, che vada oltre le semplici dichiarazioni di circostanza, che lasciano il tempo che trovano. Per di più, come se non bastasse – conclude – a fronte di questa situazione drammatica, il territorio è stato privato di un risarcimento che poteva essere concesso, perlomeno, sul fronte socio-sanitario. Anziché, in definitiva, un ritorno in termini di servizi di prevenzione, prima ancora che di cura, da creare “ex novo” ovvero da potenziare, assistiamo invece ad uno smantellamento di quel poco che avevamo, nel silenzio ancora una volta delle componenti istituzionali e rappresentative del territorio».