L'Acciaieria di Taranto e il petrolchimico di Gela hanno molte cose in comune: la crisi dei due settori industriali (acciaio e chimica), le dismissioni dell’azienda (ArchelorMittal ed Eni), i fantasmi della disoccupazione per più di diecimila dipendenti, la devastazione dell’ambiente, l’inquinamento (terra, aria, mare) e l’inquietante crescita delle malattie cancerogene.
Sia le acciaierie pugliesi quanto il petrolchimico gelese sono ubicate a ridosso della città. La fascia frangi-inquinamento è inesistente nelle due comunità meridionali. Sicché il drammatico dilemma fra lavoro e salute si è proposto negli stessi termini in entrambi i casi.
Se i guai di Gela e Taranto sono simili, perché l’attenzione riservata a Taranto è ben diversa? Per la Puglia c’è una mobilitazione straordinaria da parte delle istituzioni e dei partiti di governo e di opposizione, c’è la ricerca febbrile di strumenti (ed espedienti) per evitare il licenziamento di migliaia di lavoratori, non solo a Taranto ma in altri stabilimenti collegati alla acciaieria pugliese.
Al trattamento riservato a Gela, una cupa indifferenza, attorno alla fabbrica che ha spento le ciminiere, fa da contraltare una atmosfera di preoccupazione e di inquietudine per la crisi di Taranto. E’ un dato di fatto, che va spiegato. L’Ex Ilva (Italsider), dal novembre 2018 filiale italiana della società franco-lussemburghese ArcelorMittal Italia spa, ha stabilimenti anche in Liguria, Novi Ligure, e Racconigi in Piemonte, Marghera in Veneto, oltre che naturalmente a Taranto. Una forza lavoro di circa ventimila dipendenti (la cifra è sub judice).
A Gela nel periodo di massimo splendore si arrivò, con l’indotto a circa quattordici mila unità, cui forse andrebbero aggiunte altre realtà occupazionali (trasporti, servizi di sicurezza ecc).
C’è perciò sconcerto per la diversità di trattamento. Ragioniamoci sopra.
A Gela sono rimasti i guai provocati dalla fabbrica a causa di mezzo secolo di convivenza con agenti inquinanti, e la fabbrica di fatto non c’è più. La scelta – fra fabbrica e salute – non è più così dolorosa e drammatica. Ma questo, chiamiamolo così, vantaggio, non è servito a niente, perché le partecipazioni statali non hanno mai investito sul “dopo”. Eppure l’obsolescenza del petrolchimico avrebbe potuto essere calcolata con la stessa precisione di un allunaggio di una navicella spaziale. Cinismo, ignoranza, interessi (politici, economici ecc)? Si è lasciato che le cose andassero come dovevano, senza alzare un dito.
Altri fattori hanno giocato un ruolo essenziale. Mentre in Puglia la fabbrica è rimasta in piedi, nonostante le alterne vicende, il petrolchimico di Gela è morto da due decenni di una morte lenta. Una lunga agonia e poi lo stato vegetativo. Non si è staccata la spina perché la legge impone all’Anic, società del Gruppo Eni (pubblico-privato) di bonificare l’intera area prima di abbandonarla, con il concorso delle risorse statali. Taranto è rimasta in vita e l’acciaio, a differenza della chimica di base, è rimasto strategico per l’economia nazionale. La riconversione, dalla chimica alla green-economy, è stata d’altro canto la ricetta salvifica adottata per Gela, ma ha funzionato come effetto placebo, cioè una finta medicina da assumere con l’intento di far nascere l’idea della guarigione. La realtà tuttavia si è incaricata, con il tempo, di far toccare con mano il declino prima e il fallimento poi dell’industria gelese.
Sia Taranto che Gela hanno affrontato, ed affrontano ancora oggi, le terribili conseguenze dell’inquinamento.
Palazzo d’Orleans, sede della Presidenza della Regione, è stata la sede di incontri con i manager dell’Eni: è stata illustrata con dovizia di dettagli la riconversione, il salvataggio, la collocazione dei lavoratori, il loro trasferimento ecc.
Ma chi s’affaccia su Gela s’accorge che la realtà è un’altra: ciò che è rimasto nell’area Gela-Licata-Ragusa è la trivellazione a mare del petrolio, cui provvedono maestranze gelesi e/o siciliane, superspecializzate. Perché non si è perso solo il lavoro, ma il know-how, prezioso. Uno spreco enorme.
Ho tratto la sensazione, nei miei brevi soggiorni, che Gela stia cercando di fare da sé, riconvertendo la sua economia: dall’industria al commercio, al terziario e all’impresa. I giovani s’inventano qualcosa o partono, come altrove nel Meridione.
Ciò che fa rabbia è il silenzio su Gela, sia a Roma e Milano (sede dell’Eni) che a Palermo nonostante Gela sia uno dei 39 SIN (siti di interesse nazionale), su cui dovrebbe essere esercitato un monitoraggio costante al fine di riconsegnare l’area su cui è nata l’industria ai piedi della collina così com’era alla sua comunità, come obbliga una legge dello Stato. C’è bisogno di sottolineare che i quattordicimila posti di lavoro persi a Gela valgono quanto i diecimila di Taranto, Racconigi e Novi Ligure?
Negli anni Sessanta gli esperti vaticinarono che la montagna di soldi spesa a Gela avrebbe potuto contare sugli effetti moltiplicatori, sarebbero nate altre industrie. E invece la previsione risultò errata. Negli anni Settanta venne spiegato da autorevoli sociologi che l’industrializzazione non avrebbe creato svilluppo. Oggi predicano la green economy come il deus ex machina delle tragedie greche. Ma a bassa voce, senza far rumore: è un sussurro perché ascoltino a Gela, e stiano calmi e sereni. Ma dov’è lo Stato? Dov’è la Regione, l’amministrazione comunale? Non ci mettiamo dentro il sindacato (c'entra e come...), perché prendersela con il sindacato sarebbe come sparare all’autombulanza, meglio perciò deporre armi e munizioni.
Palermo tace, e a Roma c’è Taranto, solo Taranto, da salvare. Nei naufragi i soccorritori hanno scelte drammatiche da compiere. Tirare in barca chi urla e sta per affogare, raccomandando alla misericordia del Padreterno gli altri. Sta accadendo la stessa cosa quando ci si occupa del Mezzogiorno, che ha l’acqua alla gola.
Abbiamo il dovere, tuttavia, di capire. Se l’acciaieria e la chimica sono entrambi industrie di base, la prima regge l’industria manifatturiera italiana, permettendogli di mantenere il secondo posto in Europa, dopo la Germania. La Fincantieri senza l’acciaio di Taranto subirebbe una dipendenza dall’estero.
Il mercato finanziario non ha ancora fagocitato del tutto la produzione, l’acciaio è in crisi a causa dei costi e dell’andamento del mercato. Da qui il voltafaccia della ArcelorMistral all’inavrebbe suggerito la fuga della ArcelorMittal Italia da Taranto. Insomma Taranto conta infinitamente di più di Gela. Non prendiamocela dunque con i governanti che si sono piazzati al capezzale della fabbrica tarantina per risuscitare l’acciaieria. Né con gli oppositori parlamentari, che incrociano le spade per assicurarsi il consenso e promuovere il dissenso sul campo avverso.
Gela sconta un’altra peculiarità, avere ricevuto il battesimo industriale con la chimica di base, che appartiene all’era del giurassico. Questo gap avrebbe potuto essere colmato con una attenta e preventiva pianificazione del futuro. Non c’è stato niente. La desertificazione industriale è arrivata come una maledizione del destino.E’ invece un episodio che merita la condanna esemplare delle partecipazioni statali nella storia economica del Paese e del Sud in particolare. Sul banco degli imputati, per concorso di colpa, virtualmente dovrebbero salire, quei governanti locali e regionali accanto a governanti e manager cinici fino all’impudenza. Concorso di colpa da scontare e patire con una umiliazione pubblica, l’ignominia delle forche caudine, un rito purificatore e propiziatorio salutare. Gela non resusciterebbe, ma almeno otterrebbe giustizia.
Sono troppo severo? Mi limito a ricordare con costernazione la montagna di menzogne che furono scaricate su Gela, la Sicilia e il Mezzogiorno nell’era del petrolio, gli anni cinquanta e sessanta, quando lungo la fascia del nuovo Texas siciliano, fra Siracusa, Ragusa e Gela, si viveva il sogno della futura ricchezza e del benessere.
Nudi li vorrei vedere, mentre passano sotto il giogo. O sottoposti all’ordalia divina, costretti a camminare sui carboni ardenti.