Se non sono divenuto un attore (e sarei stato un pessimo attore) la piena totale responsabilità è di Vittorio Gassman (nella foto).
Infatti, quando lo conobbi a Roma nel 1977, durante lo spettacolo Gassnan, 7 giorni all’asta, nel preciso istante in cui balzai sul palcoscenico e gli strinsi la mano dicendogli che ero un suo giovanissimo fan venuto dalla lontana Sicilia, compresi immediatamente che mai io avrei potuto interpretare i grandi classici. Mai avrei potuto essere Otello o Amleto, Marco Antonio o Romeo, Edipo od Oreste.
La mia non alta statura a confronto di quella ciclopica di Gassman, che non a caso era stato anche un nazionale di basket, ridimensionò in un attimo ogni mia “ambizione attoriale” e sembrò essere per me una punizione degli dèi. Così, quando scesi da quel palco del Teatro Tenda avevo già deciso che non avrei più ripetuto gli esami all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica “Silvio d’Amico”, quantunque l’anno precedente mi ero comportato egregiamente raccogliendo un “bravo” da Orazio Costa Giovangigli per il mio Aspettando Godot di Samuel Beckett. No, basta recitare. Avrei optato per la regia.
Nondimeno, quell’approccio con Gassman, sebbene mi pose di fronte ad una cruda verità, si rivelò per altri aspetti quanto mai proficuo perché diede il là ad un’amicizia che sarebbe durata un quarto di secolo. Infatti, appena 2 settimane dopo l’incontro romano, ricevetti un breve scritto da Vittorio che si complimentava per il mio atto unico Gelone donatogli a Roma, e che lui dietro mio invito, e con mio sommo diletto, quel giorno aveva letto davanti al numeroso pubblico, nella sua prima intera pagina.
Certo, l’amicizia che si sviluppò dopo fu più di tipo epistolare, non a caso del mattatore conservo una trentina di lettere, compresi gli auguri per le mie nozze. Ma di tanto in tanto con l’attore ci vedevamo, soprattutto in occasione dei suoi spettacoli. E di questi incontri penso che almeno un paio andrebbero raccontati. Quando egli, ad esempio, dopo tantissimi anni dal suo primo mitico Otello (quello recitato in coppia con Salvo Randone), rimise in scena al Teatro Quirino, nel 1983, una nuova versione del dramma, con Pamela Villoresi nel ruolo di Desdemona e Giulio Brogi nel ruolo di Jago, mi fece invitare dalla sua segretaria inviandomi pure un biglietto in poltronissima. Andai da solo, e dopo la messa in scena, a sipario calato, mi recai nel suo camerino per salutarlo.
Ebbene, in quella circostanza lo trovai, se non sgradevole, certamente freddo e distaccato. La cosa mi ferì talmente da scrivergli successivamente una lettera attraverso cui lo “rimproveravo” per quel suo imbarazzante comportamento. E mentre gli scrivevo consideravo amaramente che detto scritto avrebbe determinato la fine della nostra amicizia. Ma pensate la gioia quando appena una settimana dopo ricevetti una sua risposta, attraverso la quale egli mi ribadiva tutta la sua stima.
Pensate, il grande Vittorio mi chiedeva scusa, giustificando il comportamento di quella sera come determinato da una grande stanchezza fisica e ad una dose – scrisse con bonaria autoironia – di precoce senile rimbecillimento. Sorpreso e commosso, compresi che Gassman, dietro la facciata del burbero e un carattere non certo facile, era una gran bella persona, con un’anima e una sensibilità particolari. Potrei raccontare ancora di un episodio. Gassman amava molto la Sicilia, anche perché nella nostra isola aveva accumulato molte delle sue fortune teatrali, soprattutto recitando i grandi tragici greci negli spettacoli organizzati dall’Inda al Teatro antico di Siracusa. E nell’89, se non ricordo male le date, capitò anche al Metropolitan di Catania, dove sempre dopo lo spettacolo, che in quel caso rendeva omaggio al grande attore scespiriano Edmund Kean, Vittorio, creando in verità non pochi malumori, lasciò fuori dal camerino tutti i suoi fan e fece entrare soltanto me.
Quando, il 29 giugno 2000, intorno alle 11.00, pervenne la notizia che Vittorio Gassman era morto nella notte stroncato da un infarto a 78 anni, mi trovavo a Cinecittà dove facevo parte dello staff tecnico di Pupi Avati che girava I cavalieri che fecero l’impresa. La ferale ed inaspettata notizia colpì tutti di sorpresa. Su Cinecittà scese un silenzio irreale e per almeno una, due ore i set si fermarono. Io ero triste, arrabbiato, deluso. Mi sentivo quasi tradito.
Chissà perché avevo sempre pensato che Vittorio fosse immortale e che avrebbe vissuto almeno 100 anni, o perlomeno 90, come il grande Ermete Zacconi, di cui si era stato anche imparentato avendo egli sposato Nora Ricci (la prima delle sue quattro mogli) che a sua volta era figlia di Renzo Ricci, genero di Ermete. Invece Gassman se ne andò così, in silenzio, con una uscita di scena modesta, in punta di piedi, senza applausi. E certo causa del suo prematuro “involarsi”, fu quella sottile, subdola, altalenante depressione che già da qualche anno lo tormentava e con la quale combatté a lungo senza mai riuscire a rintuzzarne la virulenza. Io stesso conservo una lettera di Vittorio che, letta soprattutto con il senno del poi, rivelava il suo disagio e il suo malanimo.
Così, il Gassman ladro e donnaiolo de I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli, il soldato Giovanni Busacca de La grande guerra (1959), che si faceva fucilare con l’amico Sordi per difendere l’onore della bandiera, il cialtrone ed irriverente Bruno Cortona de Il sorpasso (1962) di Dino Risi, il cavaliere errante e coraggioso di Brancaleone da Norcia (1966) di Mario Monicelli, o ancora Il cinico avvocato Gianni Perego di C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola; ecco questo Gassman che aveva interpretato tanti personaggi pieni di forza e temperamento, in realtà fu un uomo con molte fragilità, oltretutto neppure nascoste essendo egli propenso a parlare anche in pubblico di queste sue debolezze. Mi sovviene a tal proposito il ricordo di una lunga intervista rilasciata a Maurizio Costanzo nel salotto del suo celebre show televisivo.
Parlare ora qui della carriera di Vittorio Gassman, attore, regista, sceneggiatore, sarebbe difficile e velleitario. La sua fu una carriera “mostruosa” per fare il verso ad un famoso film ad episodi da lui interpretato che si intitolava appunto I mostri (1963) di Dino Risi. I premi e riconoscimenti in carriera non si contano. E se egli fu a teatro “sommo, unico ed insuperabile”, non meno lo fu al cinema. Gli mancò soltanto il Premio Oscar, che però in qualche modo prese per lui il grande Al Pacino quando nel remake di Profumo di donna (1974) di Dino Risi, dal titolo Scient of Woman (1991), studiò minuziosamente la magistrale interpretazione di Gassman, e grazie a quella lezione, poté sviluppare al meglio il difficilissimo ruolo dell’ufficiale cieco, protagonista della vicenda, sino appunto a vincere l’Oscar.
Di sangue mezzo tedesco per parte di madre, genovese di nascita e romano d’adozione, Vittorio Gassman dopo avere frequentato l’Accademia “Silvio d’Amico” ebbe subito successo e venne chiamato persino ad Hollywood, anche se le sue pellicole americane, come diceva egli stesso, era meglio dimenticarle. In verità l’attore aveva esordito sul grande schermo nel ’45 con piccole parti. Un primo ruolo importante lo ottenne nel film Le avventure di Pinocchio (1947) di Giannetto Guardone. E a proposito del personaggio di Collodi egli diceva sempre che gli attori – proprio come Pinocchio – sono tutti degli ipocriti, dei bugiardi, e mentono pur sapendo di mentire, divertendosi e guadagnando pure molti soldi su quest’arte dell’imbroglio.
Un altro aspetto forse meno conosciuto della grande poliedricità di Gassman fu il suo talento di scrittore. Egli non fu solamente uno straordinario traduttore di testi teatrali e un raffinato autore di versi poetici, ma anche un eccelso scrittore, adorato dalla critica letteraria. Mi piace citare per tutti i 2 volumi autobiografici Un grande avvenire dietro le spalle (1981) e Le memorie del sottoscala (1991).
Sempre tormentato da un “credere altalenante” Gassman qualche anno prima di morire, dopo un recital di poesie tenuto in Vaticano per Giovanni Paolo II, disse di avere trovato la tortuosa via della fede, ma non smise di dire che ogni uomo dovrebbe vivere due volte: una vita per imparare, l’altra per mettere a frutto ciò che si è imparato evitando di ripetere gli errori commessi nella precedente esistenza.
Le ceneri di Gassman riposano al Verano. Sulla modesta lapide sta scritto l’epitaffio che lui stesso aveva coniato per sé... “Non fu mai impallato”.