Il 30 dicembre scorso, al tramonto dell’anno che ci siamo lasciati alle spalle e con il Corriere in pausa natalizia, è venuto a mancare l’ing. Angelo Tuccio (nella foto).
Avrebbe compiuto a breve 57 anni. A stroncarlo, un male incurabile contro il quale assieme alla famiglia – la moglie Ernesta, i figli Marco ed Elena – ha lottato come un leone, e con la stessa tenacia con cui per undici ininterrotte stagioni aveva guidato il suo amato Gela calcio.
Cattedrale affollata per i suoi funerali concelebrati da sei sacerdoti. Tra questi, don Giuseppe Fausciana, che nell’omelia ha ricordato la figura dell’imprenditore e dirigente sportivo scomparso. Fausciana ha definito Tuccio una “presenza significativa per la città”.
In chiesa lo hanno ricordato il figlio Marco, l’avv. Egidio Alma, un rappresentante della tifoseria organizzata, l’ex calciatore Maurizio Nassi e il collega giornalista Fabrizio Parisi, che ha dato la notizia della volontà dell’amministrazione comunale di intitolare il vecchio stadio Presti al presidente scomparso; decisione questa sollecitata dai cronisti sportivi, dalla tifoseria e dall’attuale dirigenza Mendola.
A seguire, un breve ricordo di Tuccio del nostro direttore Rocco Cerro.
Voce inascoltata
La foto sopra ha un luogo, una data, una storia. L’ho scattata a Roccaraso (L’Aquila), in Abruzzo, il 27 luglio del 2008. Riprende Angelo Tuccio in gran forma abbozzare un sorriso per quella che sarebbe stata la stagione più esaltante e al tempo stesso più deludente della sua ultradecennale gestione. A mio parere, la squadra più forte della sua gestione, con Cecere, Franciel, Nigro, Fernandez, Marinucci Palermo, Pasca, Gaeta, i due Esposito, e con il compianto Cosco in panchina.
In quella foto, a parte il sorriso accennato, c’è la solitudine di un uomo solo al seguito della sua squadra, a mille chilometri di distanza da casa e a più di 1.200 metri sul livello del mare. lo raggiunsi dalla riviera adriatica – dove mi trovavo in vacanza – in pantaloncini, infradito e maglietta.
A Roccaraso c’era un freddo cane, e piovigginava pure. Ci siamo salutati e lui, contento di ritrovare in me un po’ di familiarità gelese, si premurò a procurare due giacconi sportivi, uno per sè e uno per me. Non ce l’avremmo fatta ad assistere senza quelle coperture alla prima partita amichevole di quel precampionato. Ricambiai la cortesia offrendogli un sorso di whisky che portavo appresso in una bottiglietta mignon. Lui mi disse di non bere super alcolici, ma accettò, giusto per riscaldarsi e per potersi gustare meglio subito dopo l’ennesima sigaretta.
Non l’avevo mai visto così felice. Era consapevole di aver messo su uno squadrone. Gli dissi che con quel po-po' di organico la sua squadra avrebbe stracciato il campionato e che la C1 sarebbe stata conquistata a mani basse. Sappiamo tutti come finì: Il Gela mancò la promozione ai play off, avendo perso la doppia finale (1-0 per il Pescina all’andata ad Avezzano; 0-0 al ritorno a Gela). Una delusione che avrebbe spento l’entusiasmo del più irriducibile dei tifosi.
Tuccio soffrì il fallimento della stagione, ma ancor più l’esser venuto meno alla parola data ai suoi tifosi, l’impegno di riportare a Gela la C1. Era tanto il suo puntiglio che la regalò alla città attraverso un ripescaggio oneroso.
Aveva tentato di ampliare la compagine dirigenziale per favorire quel salto di qualità che di lì a qualche anno avrebbe potuto proiettare la squadra addirittura in serie B. Sarebbe stato un traguardo storico, il suo traguardo, che non confessò mai. Lo coltivava dentro di sè.
Invece rimase solo, non si sa quanto per l’insensibilità della classe imprenditoriale gelese e quanto per il suo egocentrismo unito al morboso attaccamento a quella che considerava la sua creatura. Anche la politica se ne lavò le mani e così il giocattolo si ruppe. A testa bassa Tuccio ricominciò dalla terza categoria e riprese a divertirsi, con la soddisfazione di aver riportato la squadra alla soglia del professionismo.
Faccione da burbero, decisionista, uomo di parola, generoso, affabile e scontroso alla bisogna, l’ing. Angelo Tuccio sapeva di non essere stimato come meritava dai suoi colleghi imprenditori, ma sapeva anche di procedere nel giusto e di avere la città al suo fianco. Non tutta, non tutta quella che ha assiepato la Chiesa Madre al suo funerale, dove c’era forse anche tanta gente che in vita lo aveva avversato e che magari lo stava già rimpiangendo. Perchè come spesso accade, gli uomini veri vengono apprezzati solo post mortem. Una magra soddisfazione per chi se ne va e per chi resta.
Spesso mi è capitato di pensare quanto giovamento avrebbe tratto la città se a Tuccio fosse stata data la possibilità di amministrarla. Lui forse non si sarebbe mai candidato e magari non l’avrebbero eletto. I gelesi – si sa – non sanno scegliere i propri governanti. Da sempre.
Da cronisti sportivi, abbiamo avuto modo di conoscere le sue idee per un armonioso sviluppo del territorio. Si batteva per l’impiantistica sportiva perchè direttamente interessato, ma lo stesso avrebbe fatto per altri settori e volàni dell’economia del comprensorio. Gli piaceva confrontarsi con noi anche su questioni che esulavano dall'ambito sportivo. Aveva grandi idee, come quella di costruire un nuovo stadio, gratis, rendendolo produttivo abbinandogli un centro commerciale, creando così lavoro e garanzia all’investimento. La politica non glielo pemise, per inerzia o per scarsa lungimiranza.
A perderci, alla fine come sempre, è la città, che si ritrova senza un nuovo stadio e con uno vecchio inutilizzato per incuria.
Tuccio non avrebbe sopportato la chiusura del Presti. Così, quella che dovrebbe accogliersi come una buona notizia, ovvero l’intitolazione del vecchio Presti al presidente scomparso, sembra un’offesa alla memoria dello stesso. Un personaggio che entra a pieno merito tra i figli migliori di questa città in ambito sportivo, da affiancare ai pochi grandi del passato, come il cav. Vincenzo Maganuco.