Da qualche parte ho letto che certa gente viene al mondo per scuotere gli imperi, e altra per presentare emendamenti.
E i pensieri, che non conoscono padrone, è volato su Palazzo dei Normanni, come un’aquila reale in cerca di preda per alimentarsi. Cinismo indotto, si chiama, e sfugge alla sfera della volontà. Insieme alla memoria, che ci tradisce nei giorni feriali oltre che quelli estivi, prima e dopo i pranzi.
Tanto che mi chiedo quale sia il perimetro delle mie libertà. Ma questa è un’altra storia. Lo sapete com’è, le parole sono come le pecore, ripetono il tragitto conosciuto, dandoci la sensazione, errata, di essere, come dire, multitasking. Una ne fai e dieci ne pensi. Andiamo avanti.
Il destino, cinico e baro, ha voluto che la generazione di siciliani succeduta ai padri della patria – Alessi, Aldisio, Macaluso (da sinistra a destra nella fila in alto) – appartenesse alla schiera dei presentatori di emendamenti, attività che dà lustro ma lascia le cose come sono.
Coppo di fumo, lo chiamavano i nostri gloriosi antenati. Auspico, tanto per esorcizzare il problema, e sentirmi a posto con la coscienza, che questa categoria dello spirito, gli emendatori, finalmente trovi riposo eterno, e abbia degna sepoltura, magari con un epitaffio elegante ma rappresentativo, come: “esaurì tutte le apparenze dell’essere” (Borges, L’artefice). E’ un modo residuale per conquistarsi l’eternità, meglio che niente.
Le parole, anche quando non dicono niente o sono una boiata pazzesca, bucano il tempo, sanno indossare l’abito giusto nel momento giusto e non sono dimenticate, brillano di luce propria. Vi sarà certamente capitato di ascoltare uno dei tanti tribuni della plebe, e dopo avere guardato l’orologio, quaranta minuti parole forbite, non ti è rimasto proprio niente nella testa. Niente sensi di colpa, non hai ascoltato senza ascoltare, sei solo sfuggito alle sevizie dell’imbonitore, peraltro talentuoso (ma non alla stretta di mano dell’ossequio….).
Fosse una persona fisica, la Regione siciliana sarebbe in coma vegetale, vigilata da paramedici a tempo indeterminato e legata a tanti fili che mantengono il battito cardiaco. L’encefalogramma non serve, era piatto anche in vita. La sepoltura potrebbe toglierci uno sfizio: affiancare al sepolcro circondato da una infioratala statua del “parlamentare” ignoto, in doppio petto grigio, senza carabina.
Scriverei sulla piattaforma di marmo, proprio ai piedi dell’ignoto, “sono morto tante volte, ma così mai…”, espressione che prendo in prestito ad un ignoto attore romano di teatro vissuto mezzo secolo prima di Cristo. Avendo recitato la morte sulla scena tante volte, provò lo scoramento di chi deve recitarla accanto agli amici e congiunti tristi e silenziosi, che comunicano con la loro faccia l’approssimarsi irreversibile dell’aldilà.
Torno all’aldiqua. La campana a morto dell’autonomia siciliana è suonata mezzo secolo fa, i suoi rintocchi possono essere ascoltati ancora oggi. E’ una eco che giunge da una galassia lontana anni luce, sempre più tenue. Il “de profundis” è stato recitato a Roma all’insaputa degli emendatori siciliani di lungo corso, che hanno la faccia tosta di riproporsi al popolo con l’aria di buoni padri di famiglia, che si dedicano con tutta l’anima al bene comune.
Populismo? Certo, populismo. Corro il rischio, perché i populisti, in servizio permanente effettivo, stanno per saltare sulla carrozza, stando alle previsioni dei sondaggisti, e dovranno perciò rinunciare alla caccia alla volpe a mani nude. Devono governare in base al principio dell’alternanza, che non ha nulla a che vedere con l’area politica, piuttosto al “levati tu che mi ci metto io”. Li aspetto come una provvidenza. Aspettativa maliziosa, certo, ma non sono un buonista per tutte le stagioni.
Arrivano i populisti. Attesi come il Settimo Cavalleggeri, mentre l’uomo bianco è sul punto di perdere lo scalpo, ricevono l’applauso liberatorio della platea festante. Ci sentiremo tutti con le giubbe rosse o blue, felici che da lì a poco, i pellerossa armati di freccia non avranno nemmeno il tempo di raccomandarsi a Manitù, il loro dio. Una cosa è abbracciare i desideri e del popolo, un’altra è governarlo.
Ciò premesso, arrivo al dunque: il rinnovo dell’Assemblea regionale siciliana, l’elezione del presidente regionale, e dei settanta (non più novanta), deputati regionali. Questa tornata elettorale, che si svolge all’ombra delle elezioni politiche nazionali, mostra la natura e la irreversibilità del declino.
Emarginata dalle politiche nazionali, la consultazione regionale è quasi sparita dai radar dell’opinione pubblica. Il Presidente della Regione uscente, Nello Musumeci (al centro della foto, nella fila in basso), se è stato eliminato da un cecchino, Gianfranco Micciché, presidente dell’Assemblea regionale. Bersaglio grosso, colpo partito da un osservatorio privilegiato, la poltrona di Sala D’Ercole, dove avrebbe dovuto sedere un alleato (forzista). Fuoco amico, dunque. Fdi incassa, punta a Roma. Nessun contraccolpo elettorale.
“Job done”, ha potuto comunicare Micciché ad Arcore. Habemus papam, cioè Schifani. Non vi rattristate, tuttavia: Nello Musumeci non è finito all’altro mondo, si trasferisce sullo scanno romano, seppure a malincuore. Quando decise di mandare al voto i siciliani lo stesso giorno in cui si vota per la Camera e il senato della Repubblica, Musumeci pensava, ricandidato, di avvantaggiarsi dell’effetto traino, cioè di ottenere il consenso dell’elettorato di destra politicizzato..
Si era fatto i conti senza l’oste, cioè il cecchino, Miccichè, che voleva una persona di fiducia a Palazzo d’Orleans. Renato Schifani (a sinistra della foo, fila in basso), ex presidente del Senato al tempo di Berlusconi, non è un uomo politico di primo pelo. Ha praticato la crioconservazione, che consiste nel conservare il corpo a temperature bassissime, in attesa che arrivi la “medicina” giusta per tornare in sella.
Chi entra in politica, non ne esce più (o quasi). Sono cose che sapete, è come mettere il dito sulla piaga. Per alleviare la sofferenza, vostra e mia, tuttavia, ricordo che la legge elettorale siciliana, tutt’altro che esente da pecche, conserva una certa dignità rispetto al cosiddetto rosatellum nazionale, perché non demanda alle segreterie politiche la nomina dei parlamentari regionali. Gli elettori siciliani possono scegliere il candidato, ed è una gran cosa.
Niente salti di gioia, comunque. Girano gli stessi nomi. Si vota con un proporzionale ritoccato, che non fa convivere maggioritario e proporzionale come alle politiche nazionali, ma prevede l’elezione diretta del presidente regionale e un premio di maggioranza a favore del candidato presidente vincitore.
Il premio consiste in una dote di deputati che nelle intenzioni del legislatore regionale deve consegnare al vincitore un quadro politico chiaro, con una maggioranza di supporto al capo del governo. Tutto giusto, ma il meccanismo della legge è stato studiato perché s’inceppasse al momento giusto. Succede, infatti, che il premio di maggioranza, non regali la maggioranza parlamentare.
Proprio così, l’assurdo. All’indomani del “verdetto” che premiò Saro Crocetta, il presidente regionale non aveva la maggioranza, e i deputati regionali voltarono le spalle ai partiti che li avevano candidati, facendo nascere gruppi parlamentari nuovi di zecca. Il mercato delle vacche.
Ma nessuno ebbe a dispiacersi, l’assemblea regionale è un condominio rissoso a prescindere dalle etichette, ogni condomino rappresenta la quota di proprietà, non si sente vincolato da niente e nessuno. Settanta deputati, settanta governi, insomma. Nella legislatura di Rosario Crocetta (primo a sinistra nella foto in basso) i voltagabbana hanno stravolto il risultato elettorale.
Con il governo Musumeci, dotato di ampia maggioranza, nonostante non si sia ripetuto il fenomeno del trasformismo, è prevalsa la conflittualità permanente. Non è cambiato niente, dimostrando che si tratta di una crisi di sistema. La qualcosa ci fa capire, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’ingegneria elettorale non serve a nulla, specie quando è scheggiata dagli emendatori, e dall’esasperato individualismo dei parlamentari.
L’interesse residuale verso il rinnovo dell’Assemblea e del presidente regionale si spiega così, sono comprensibili, anche se non giustificabili quando servono a lavarsene le mani, astenendosi dal voto. La rinuncia ad esercitare il diritto di voto, è come darsi la zappa ai piedi, demandando ad altri il proprio futuro. Non esistono vuoti politici in democrazia, è la percentuale dei votanti, seppur sparuta, a dettare legge.
Il quadro è fosco, e le prediche servono a poco. Viviamo un tempo di grandi cambiamenti nel mondo, ci sono grandi partite in corso, che potrebbero cambiare, in peggio, la storia del mondo.
La guerra in casa, Ucraina, il confronto durissimo fra le autarchie (Cina, Russia, Turchia, ecc.) e le democrazie (vituperate, ma baluardo delle libertà), consegnano al nostro Paese le credenziali di snodo strategico con il ritorno alla cortina di ferro, e alla geopolitica degli anni cinquanta: la penisola è frontiera fra mondo sovietico e occidente.
La Sicilia è strategicamente quel pezzo d’Italia che sulla carta conta di più, ma non si guadagnata alcuna voce in capitolo. L’agenda politica ha finora smaccatamente favorito il nord del Paese. Eppure il voto di Gela vale quanto quello di Como o Cremona; nella realtà non è così. I nostri deputati regionali ci sono, ma è come se non ci fossero. Sbraitano, ma sembrano muti, ascoltano ma è come se fossero sordi.
L’elettore non ha solo diritti, ha anche doveri. Un vecchio amico suggeriva di mettere la mano nella coscienza, ma non sapeva suggerirmi come fare. In più dava per scontato che la coscienza si fosse fatta largo, fra cuore e mente.
Gela non è una metropoli, ma nemmeno un borgo. I partiti l’hanno usata come una colonia, da sfruttare senza riserve. I gelesi devono sentire la responsabilità di essere rappresentati da uomini e donne competenti, affidabili, possibilmente innamorati della loro terra. Il 25 settembre sarà “er giorno del giudizio”? Mah….
Ci mettiamo sempre del nostro, non dimentichiamolo.