Editoriale/ Manuale ad uso dell’elettorato gelese, distratto e disamorato

Editoriale/ Manuale ad uso dell’elettorato gelese, distratto e disamorato

La disaffezione, stavolta, mi tocca da vicino; la sento proprio dentro e non ci posso fare nulla, nonostante il giudizio decisamente negativo che la ragione emette ad intervalli regolari nel corso della giornata su questo riprovevole sentimento.

Le analisi sulla disaffezione politica si affastellano nell’after day; e tutte addebitano più o meno alla distanza dei partiti dal “sentire” della gente, l’autoreferenzialità delle nomenclature, l’apartheid alla rovescia dei capi e capetti, l’ingloriosa conclusione di ogni legislatura, lo scarso credito di cui godono le promesse elettorali, la percezione, non sempre veritiera, di una irredimibile immobilità, che assegna al fato, quello greco, che abita in cielo ed in terra, e una inconfessabile invidia (proprio così, invidia), verso coloro che rappresentano le istituzioni, destinatari di sostanziose ricompense in cambio di una fatica modesta e talvolta dannosa.

La lista potrebbe essere più lunga ed accogliere improperi, insulti, vero e proprio odio verso il piccolo esercito di fortunati che si godono uno stipendio di Stato e non fanno nulla per meritarselo. Su questo sentimento hanno affondato il bisturi demagoghi e populisti, che pensano, beati loro, che “punire” i rappresentanti del popolo sia meglio che pagarli non fosse altro che per alleggerire il peso delle tentazioni.

Questa larga massa di elettori che rinuncia ad esprimere un voto, o vota “contro” qualcuno e qualcosa piuttosto che per qualcuno e qualcosa, si espande come il mare nelle coste del pianeta, che si vendica delle ignominie umane. Ad ogni campagna elettorale pare di sentire il rintocco di una campana a morte, che scandisce i tempi della rinuncia alla democrazia, al diritto-dovere di farsi gli affari propri con la scusa che sarebbero affari altrui. Più di metà dell’elettorato, chiamato alle urne, non si muove da casa propria o preferisce spendere “meglio” il suo tempo.

Il giorno dopo, però, i disertori e i contras, riprendono le loro lamentazioni senza pausa mattina mezzogiorno e sera, prima e dopo i pasti, ovunque si trovano, al lavoro in famiglia in vacanza, persuasi di essere ascoltati dai loro interlocutori silenziosi, sperando che le espettorazioni di rancore nudo e crudo li assolvano dalla diserzione e giustificano lo stupido schiaffo assestato alla democrazia, che credono di amare ancora ed invece non sanno più di che si tratta.

Di questo popolo arrabbiato, talvolta per sacrosante ragioni beninteso, fa parte la torbida rappresentanza dei sovversivi – ci sono e come anche quelli - inconsapevoli della loro natura. Sono complottisti, feroci contestatori delle istituzioni e di chi li rappresenta, passatisti innamorati di tutto ciò che non c’è più, ivi compreso il “ventennio”. Sono no-vax, putiniani, memici dei Rosacroce, dei Rockefeller, degli gnomi di Londra, del Priorato di Sion, del Club Bildeberg, degli ebrei che arraffano tutto ciò che trovano, delle lobby occulte, dei governanti inevitabilmente in debito con loro per la scarsa onestà, e l’abbuffata di denari rubata all’erario. Sono gli stessi che mettono a soqquadro il sindacato additandolo al pubblico ludìbrio, scoprono il malaffare perfino sul pianerottolo di casa, odiano i diversi, i neri, gli infedeli, insofferenti degli amici, che non capiscono e dei quali perciò sospettano, dei congiunti, di cui non si fidano per via di comportamenti discutibili conformisti figli della “beata ignoranza”. 

La mia disaffezione non è, ve lo assicuro, propedeutica al salto della quaglia, cioè all’arruolamento nell’esercito dei sovversivi e dei lamentisti in servizio permanente. Tengo saldi i miei convincimenti, e non mi affeziono alle presunte virtù di cui sarei portatore sano. E allora di che natura è questo sentimento, che sembra negare una parte non trascurabile della esistenza in vita, cioè i giorni i mesi gli anni che ho trascorso spendendo tempo, e non solo tempo, nella militanza politica  ( a Gela e Palermo)? 

Sembrano così lontani quei tempi, che mi pare di non riconoscermi. Eppure mi viene il magone, una fottuta nostalgia, e confesso di non sentirmi a mio agio nel presente, il luogo della mia esistenza – non mi riferisco al luogo fisico, ma al luogo culturale, morale, politico. Mi pare di stare nel limbo della coscienza, e di stare allontanandomi dal Rubicone sempre più, dal “fronte” dove si può e si deve stare per esserci e guardarsi allo specchio senza dovere vergognarsi. 

La campagna elettorale, arrivata senza avviso, quasi in sordina, scandisce i tempi della politica politicante, tutti gli adempimenti che i partiti devono compiere per affrontare le urne: alleanze, candidatura, programmi, manipolazioni, lista delle promesse ecc. Non sono tempi morti, tutt’altro. Andrebbero diligentemente sorvegliati per farsi un’idea di ciò che ci capiterà e dei personaggi a cui stiamo affidando quel che resta da vivere (parlo per me). 

La competizione fra i leader non è eccitante, lo ammetto, e non mi sento di riprovare i distratti. Niente battaglie all’arma bianca: destra, centro, sinistra si punzecchiano, ma non affondano la lama. L’agenda Draghi ha il merito di avere insegnato anche un po' di buone maniere, e di questo non saremo mai abbastanza grati al banchiere del “whatever it takes”.  Il disarmante caos calmo rende meno penose le consuetudini pre-elettorali: gli amici “sconosciuti” che certificano la loro esistenza in vita per aspirare al consenso elettorale sono una sparuta minoranza, forse a causa del precipitoso avviamento della macchina elettorale, sono diminuiti, per quanto mi riguarda, anche messaggi augurali. Le feste ferragostane, che di solito non pretendono il ricordo nero su bianco, sono state comunque onorate, giusti per tenere in vita la comica rappresentazione della fratellanza virtuale. 

Aggiungo una decina di richieste di amicizia su FB legate alla pubblicità elettorale (alle quali non ho saputo negare l’accoglienza, immaginando i costi morali della dissimulazione), ed una proposta di candidatura (regionale) da parte di un parlamentare di lungo corso, che fa il candidato di mestiere e deve “memorizzare” il nuovo schieramento politico cui aderisce per non incorrere in errore con l’amico rintracciato nelle vecchie rubriche. Il surreale episodio la proposta di candidatura, mi ha messo di buon umore, e facendomi sopportare una campagna elettorale scandita da auspici sfavorevoli alla parte politica cui, malgrado tutto, credo di affidare ancora una volta il mio modestissimo destino (nel senso della brevità con la quale esso ha da compiersi).

Se mi fermassi a questo punto, non potrei dormire stanotte, tormentato dai sensi di colpa. Consumerei un tradimento verso me stesso così esecrabile da togliermi il sonno. Sto esagerando? Forse. Mi piego meglio. Compiere il proprio dovere, rispettando la preziosa democrazia che ci troviamo a maneggiare con così modesta accortezza, è necessario per sentirsi a posto con la coscienza, specie se si è elettori di una città come Gela (o Palermo, dove vivo). Gela ha bisogno di uomini e donne in gamba, arruolati in una parte politica che, al netto delle inevitabili cadute di stile, possano rivendicare una seppur modesta fiducia. IL sermone sull’etica della responsabilità finisce qui. 

Chi crede che il bene stia tutto da una parte ed il male dall’altra, per pigrizia o una modesta competenza delle cose del mondo, farebbe bene a farsi un esame di coscienza, e chiedersi, battendosi il petto, che cosa lui, non gli altri, o i partiti e le istituzioni, ha fatto per la sua città, e quante volte ha anteposto il ”favore” o la consanguineità in cambio del voto. Potrei concludere qui, sull’altare della buona creanza, ma quel “credo” che campeggia dalle parti di via Bellerio, dove ha sede la Lega più che mai nordista, non lo sopporto proprio. Mi colpisce come un cazzotto sullo stomaco. Vuole i voti delle beghine e dei parrocchiani? Vuole farsi perdonare la mancanza di carità cristiana nelle sue incursioni contro le carriole del mare? 

La distanza fra via Bellerio e Corso Salvatore Aldisio è siderale: quel “credo” è una moneta greca falsa, che si cerca di vendere laddove è stata coniata, 2500 anni fa, nelle piazze di casa nostra, è troppo. 

Mi piacerebbe conoscere in questi giorni che precedono il 25 settembre, che cosa hanno in mente partiti e candidati sulla Gela del futuro, quale cantiere apriranno. Gela è una eccellenza misconosciuta, sedotta e abbandonata cento volte, in mano a pochi furbastri che fanno il bello ed il cattivo tempo. Sono troppo severo? E’ vero. Non vi dirò affatto che nell’altra mia vita, vissuta a Gela, le cose stavano diversamente e la città fosse in mano a personaggi di prim’ordine, ma una cosa c’era, e bisogna riconoscerlo: non si poteva barare a lungo, la competenza era riconoscibile, le buone maniere pure. Ci si conosceva tutti, o quasi. E non è cosa da poco. C’erano anche i valori, i principi, gli ideali, seppur sussurrati. 

L’elettore gelese, inoltre, ha grandi responsabilità: deve guardare oltre i confini: siciliani, italiani, europei. E’ un tempo buio e tradimentoso quello che stiamo vivendo. Il mondo è tornato a dividersi, come al tempo della cortina di ferro. Invece che una guerra fredda fra occidente e Unione Sovietica, satelliti compresi, è in corso una sordida guerra, fra autarchie e democrazie. Da una parte ci sono la Cina, la Russia, la Turchia, e quei luoghi in cui gli elettori scelgono i loro governanti, che non saranno mai liberi di fare ciò che vogliono. 

Le autarchie dispotiche stanno rosicchiando lentamente altre fette del mondo, dove c’è bisogno di tutto – pane, acqua, libertà –. Si va a votare anche per allontanare, dai nostri figli e nipoti, un futuro senza libertà, in mano ad oligarchi, despoti, tiranni. IL 25 settembre è una tappa di questa guerra sottobanco (ma non troppo). Non ci può permettere disaffezione e diserzione esistenziale, insomma.  Sì, ho torto. E’ una vile fuga rifugiarsi nei disturbi della personalità.